Skip to main content
search
DigitalDigital Experience

Business Writing e il valore dei contenuti: il “Mestiere di Scrivere” secondo Luisa Carrada

da 3 Novembre 2016Settembre 11th, 2019Nessun commento
Luisa Carrada Il Mestiere di Scrivere
Il business writing come modo per raccontare le aziende nel modo più coerente con i propri obiettivi, facendo leva sui propri valori e sulle proprie caratteristiche distintive, per trovare un tono di voce unico e inconfodibile. Ecco cos’è “Il Mestiere di Scrivere” per Luisa Carrada, business writer, editor e writing coach, che terrà un workshop del percorso “Content Marketing” al MARKETERs Festival del 26 novembre 2016 a Villa Fiorita, Treviso.

E appunto Luisa Carrada si definisce così: “Sempre in bilico tra carta e digitale. Quando non scrive, insegna alle aziende a ideare, smontare e rimontare testi, e a trovare il loro unico e inconfondibile tono di voce“.

Ho conosciuto Luisa quasi per caso, ad aprile scorso, a Rimini durante il Be-Wizard!: potrei raccontare l’episodio con lo scontato storytelling dell’allievo che finalmente conosce il suo maestro, oppure (il che è più veritiero) lasciandomi andare alle emozioni melense di chi finalmente ha l’opportunità di conoscere una persona che adora a livelli spropositati. Ma non è questo l’obiettivo di questo articolo.

Luisa Carrada è semplicemente la formatrice di business writing migliore che possa incontrare un’azienda, un’audience di un evento o, appunto, un allievo: perché ascolta le esigenze, e le sa trasformare in un testo o in contenuto efficace che parla il linguaggio (quello vero e unico) dell’azienda che si è rivolta a lei.

Ho avuto l’onore di intervistarla, in attesa del suo intervento-workshop al MARKETERs Festival il 26 novembre. E se amate le parole e i contenuti, e pensate che questi siano un mezzo efficace per raccontare la storia di un’azienda, non perdete l’occasione di ascoltarla anche voi, quel giorno. Ma anche se non lo pensate, dopo avere letto questa intervista spero che la vostra percezione possa cambiare.

il mestiere di scrivere Luisa Carrada
Nelle tue presentazioni ci tieni a precisare che per te scrivere è un lavoro, e lo fai solo a livello professionale per le aziende. Non ti ritieni una scrittrice di narrativa, ad esempio. Ma da dove parte tutto? Qual è la stata la ragione per cui hai iniziato a scrivere per le aziende?

Sì, è vero, non so inventare nemmeno una storiella… posso ri-raccontare quello che ho vissuto o che mi è stato raccontato, ma non ho il dono di vedere storie intorno a me.

Il mio lavoro non l’ho cercato, l’ho incontrato lungo la strada e dopo un po’ che lo facevo l’ho riconosciuto: è il mio! Lavoravo in una grande azienda da un po’ di anni quando internet ha riconciliato molte mie passioni, dalla scrittura alle immagini. Non ringrazierò mai abbastanza Sir Tim Berners Lee che ha inventato il web e ha cambiato la mia vita.
Invece la mia attuale attività di libera professionista l’ho voluta, pianificata, desiderata, in gran parte inventata. E ne sono contentissima: da scrivere a una sola azienda a scrivere e insegnare per tante… un salto quantico di maturità ed esperienza!

Cos’è per te il business writing?

È modulare l’estrema versatilità del linguaggio perché l’azienda possa conseguire i suoi obiettivi, che possono essere i più diversi: vendere sì, ma anche migliorare il clima interno, recuperare una relazione compromessa con il cliente, aumentare la produttività grazie a una maggiore chiarezza, trovare un tono di voce unico e inconfondibile.

Come funziona il tuo lavoro? Come strutturi i workshop formativi all’interno delle aziende?

Di solito lavoro su problemi molto circoscritti e concreti, in cui il linguaggio giusto è tutto. Analizzo i testi veri e i problemi che raccontano (non sempre il cliente ne è consapevole, ma i testi da soli “parlano”), preparo un set di esercizi che propongo in aula e che ci permettono anche di riflettere e discutere. Alla fine analizziamo le nostre riscritture e ricaviamo insieme le buone indicazioni da applicare fin dal giorno dopo. Altre volte scriviamo testi nuovi, di sana pianta, ma sempre su temi e problemi concreti, in cui le persone possano riconoscersi.

Insomma, tanta pratica e sempre meno slide. Come diceva Confucio, “Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco.”

All’inizio dell’era digitale, la maggioranza dei contenuti in rete era solo testo. Poi sono arrivate sempre di più le immagini, ora sempre di più i video. Quale spazio ritieni che sarà riservato al contenuto “testo”, nelle sue varie declinazioni, in futuro?

Il ricongiungersi di testo e immagine dopo secoli di separazione è un fenomeno affascinante da osservare e da vivere e a noi è data questa fortuna. Il testo non perde terreno, si arricchisce e diventa più flessibile. A volte si nasconde, ma costituisce l’ossatura di tutta la comunicazione digitale. Quanta scrittura c’è dietro un video di un solo minuto? E cosa sarebbe quel video senza il suo titolo e la sua descrizione? Un relitto alla deriva. Come troviamo in rete quello che ci serve o ci diverte? Scegliendo le parole giuste. Le parole potenziano l’immagine, le danno un contesto… che miracolo riescono a fare le didascalie di un’immagine!

A proposito di didascalie, mi affascina anche molto il potere dei testi brevi: dai tag ai titoli, dai sottotitoli ai messaggi di errore, alle call to action. A volte sono proprio i testi brevi e concentrati a sprigionare maggiore potenza. Se poi affiniamo la nostra capacità di intrecciare testi lunghi e testi brevi, possiamo raggiungere grandissimi risultati.
Infine, dopo aver ritrovato l’immagine, il testo ora ritrova la voce. E le interfacce vocali prima di tutto si scrivono.

Micro-copy negli e-commerce, copy delle schede prodotto, copy persuasivi nelle pagine web, articoli editoriali: una scrittura efficace può aiutare le conversioni di un sito?

Certo, le parole sono potentissime, anzi sono (quasi) tutto. Ognuno di noi sa bene, da cliente-lettore, quanto una minima ambiguità o anche un’esitazione possa distoglierci da un acquisto e quanto invece conti essere trasportati dal testo con leggerezza fino alla fine, con chiarezza e senza fatica. Sei alla call to action e nemmeno te ne sei accorta.

È vero che le aziende dovrebbero diventare sempre di più delle “media companies”?

Moltissime lo sono già. D’altra parte se oggi il marketing è soprattutto content marketing, ogni azienda è anche un’azienda editoriale.

Quali figure professionali pensi che un’azienda debba avere integrate al suo interno, tra i professionisti della scrittura? Oppure è giusto esternalizzare questa attività a delle agenzie di copywriting?

Dipende dall’azienda, dalla sua organizzazione, dai suoi obiettivi. Io frequento soprattutto aziende molto grandi, che fanno entrambe le cose: formano le proprie persone perché scrivano e comunichino al meglio e in più esternalizzano una serie di attività. Acquisire competenze nuove, anche di scrittura, serve comunque, se non altro per essere un committente consapevole e attento, che sa scegliere i fornitori giusti e rapportarsi al meglio con loro.

Ormai il contenuto editoriale non è niente senza la sua diffusione. Uno scrittore deve già pensare al mezzo in cui andrà pubblicato il contenuto, nel momento in cui scrive un testo?

Oggi sì, perché i canali sono molto diversi tra loro e ognuno ha la sua vocazione, i suoi tempi, la sua capacità di attirare attenzione. Parlare dello stesso prodotto o servizio in una DEM o su Facebook non è la stessa cosa.

Adesso vorrei farti delle domande che per me rappresentano più delle curiosità, che altro. Cosa ne pensi degli inglesismi? Ne ho usato uno nella domanda antecedente a questa, non a caso. Ormai l’inglese lo conoscono tutti, e non sono pochi coloro che dicono che alcuni concetti possono essere meglio espressi in lingua originale (es.: “I’m addicted to tv shows“). Pensi sia giusto mantenere queste espressioni in inglese oppure che sia necessario sforzarsi di trovare delle parole corrispondenti in italiano? Per un’azienda la prima opzione potrebbe peraltro essere coerente con un tone of voice fresco, giovanile, da “Millennials” (ecco un altro inglesismo!). Te lo chiedo anche perché hai scritto la versione italiana delle tesi del Cluetrain Manifesto.

Non sono una fanatica purista e penso che certe cose oggi si esprimano meglio in inglese. Il makeup è ormai una cosa diversa da trucco, così come dire  store non è più come dire negozio. Anche il propendere o meno verso termini inglesi fa parte del tono di voce che si sceglie. Diverso è invece usare termini inglesi quando l’alternativa italiana è validissima: io per esempio non scrivo mai e poi mai deadline per scadenza o lunch per pranzo. Mi piace pure scrivere buon fine settimana e non buon we (ma quest’ultimo è proprio un vezzo).

L’arrivo di termini inglesi non deve spaventarci se arricchiscono il nostro modo di esprimersi e non lo impoveriscono. Io conosco altre quattro lingue oltre alla mia e la considero solo una grande opportunità per scegliere l’espressione migliore, anche solo nella mia testa. E in ogni caso, frequentare molto l’inglese, anche solo leggendo, mi aiuta a conoscere molto meglio l’italiano.

Quando si è poco ispirati, affrontare la pagina bianca può essere una vera sfida: il tempo scorre veloce, la nostra mente ci sembra vuota e non sappiamo come iniziare a liberare il flusso creativo. Il blocco dello scrittore è un male che accomuna chiunque si occupi di scrittura, ne soffriva per esempio anche Amos Oz, e oggi, molto probabilmente anche figure come i blogger. Ti sei mai trovata in questa situazione? Quali consigli daresti a chi si trova, afflitto e sconsolato, davanti ad una pagina bianca?

Chi scrive per professione non dovrebbe mai trovarsi di fronte alla pagina bianca perché si deve preparare prima. Prepararsi significa informarsi, conoscere a fondo ciò di cui si deve scrivere e per chi lo deve scrivere, intervistare persone, creare personas, lavorare alle parole chiave e al campo semantico… altro che pagina bianca! Casomai si deve distillare tra tanto materiale le poche parole necessarie.

Parlando sempre di “fobie dello scrittore” non posso non menzionare i refusi: quando ne vedo uno, lo correggo all’istante. Quando scrivo e ne faccio uno io rileggendo poi il testo, mi vergogno tantissimo per averlo fatto. Se ne vedo in testate editoriali importanti penso che ciò sia sinonimo di scarsa professionalità. Cosa ne pensi? E quanto dipendono dalla poca conoscenza della lingua italiana?

Pure io mi vergogno, ma mi è successo un sacco di volte ed è inevitabile. Per cui sono anche indulgente, c’è ben di peggio dei refusi. Per quanto riguarda le testate importanti, non credo sia sempre sinonimo di scarsa professionalità. Nelle redazioni online, soprattutto i quotidiani, si lavora con tempi molto incalzanti dove arrivare prima conta e a volte i refusi sono dovuti a questo. Certo, poi ci sono testate curatissime da questo punto di vista, come Internazionale e Il Post, ma lì hanno un po’ più di respiro.

Il linguaggio, con i mezzi digitali, sta inevitabilmente evolvendo sempre di più. E non solo per gli inglesismi e la recente terminologia “tech”, ma anche attraverso diverse forme, come le emoji. Pensi che queste evoluzioni siano da cogliere per tutti oppure solo per determinate aziende per i quali sia coerente farlo?

Sono scelte di stile anche qui. Richiamare l’attenzione con un’emoji si può fare e anche mescolarle con le parole, ritrovare l’immagine è anche questo. Diverso è nella comunicazione interpersonale, dove ho orrore della pigrizia che leggo in certi messaggi fatti solo di sorrisini, cuoricini e pollici in su. Sentimenti, emozioni, attenzione sono filtrati ed elaborati attraverso le parole. Possono esserlo naturalmente anche attraverso le immagini, ma non quelle stereotipate, disegnate da qualcun altro e uguali per tutti.

Ok, basta con le domandone difficili. Passo a delle domande più leggere, di cui siamo sicuri ci darai risposte altrettanto curiose.
Tre parole che ami.

Consapevolezza, leggerezza, attenzione.

Tre parole che odi.

Tra virgolette, ovvero, quant’altro.

Il testo letterario che ti ha influenzato di più.

Piccole donne, della mia omonima Louise May Alcott. È stato il primo libro vero che ho letto a otto anni, quello che mi ha dato il gusto della lettura e che mi ha fatto pensare che scrivere dovesse essere un’attività emozionante e bellissima. La sua eroina è un’aspirante scrittrice e mi accompagna da allora.

Il testo professionale che ti ha formato di più.

Tutti i libri di Annamaria Testa e quelli di Roy Peter Clark, un signore della Florida che ha insegnato e continua a insegnare a generazioni di giornalisti, tra cui un bel po’ di premi Pulitzer.

L’opera di cui sei più soddisfatta (noi adoriamo Il Mestiere di Scrivere).

Sì, lo so che Il Mestiere di Scrivere è tuttora amatissimo, tanto che vende ancora bene dopo otto anni. Anche io lo amo, forse perché lo scrissi in uno stato di grazia, ma quello che mi rappresenta di più è Lavoro, dunque scrivo! Ci ho messo dentro tutto quello che so.

Il lavoro per un’azienda di cui ti senti più soddisfatta.

Sono tanti, ma quello di cui sono proprio orgogliosa e soddisfatta è recentissimo e sono stati i laboratori di scrittura per gli autori dell’editore Zanichelli. Andare al cuore della scrittura dei libri che formano le giovani generazioni, farlo per la più importante casa editrice di scolastica italiana, e una delle più antiche, è stato terribilmente impegnativo  ma interessante e bello come poche altre cose .

Di cosa parlerai al MARKETERs Festival il 26 novembre 2016?

Ora chiedi troppo. Diciamo che comincerò spiegando come si fa a non trovarsi di fronte alla pagina bianca prendendo una direzione sbagliata…


E direi che questo, come inizio, è più che perfetto. Per il resto non possiamo che aspettare il 26 novembre, andandoci a ripassare anche Lavoro, dunque scrivo! oltre a Il Mestiere di Scrivere, per poi ascoltare i preziosi consigli di Luisa.

Riccardo Coni

Lascia una risposta

Close Menu