
Il primo MTalk del 2016 porta la voce di Paolo Iabichino, direttore creativo di Ogilvy & Mather Italy: Invertising, empatia, lovemarks, big ideaLs, The Cluetrain Manifesto, oggetti e destini incrociati. Ecco le 10 cose che non dimenticheremo.
Venerdì 5 Febbraio 2016. Dopo lunghe settimane di attesa, nelle quali abbiamo sbirciato cosa avviene nelle agenzie pubblicitarie e nell’affascinante modo dell’advertising e ripassato una decina di lezioni di marketing dalla da Mad Men, il MARKETERs Club incontra Paolo Iabichino, Chief Creative Officer presso Ogilvy & Mather Italy.
Il “microfono ballerino” non sembra essere un problema per il co-autore del libro “Existential Marketing: i consumatori comprano, gli individui scelgono”, che si racconta per qualche ora di fronte all’aula piena: gli studenti ascoltano attentamente e twittano (quasi) tutto ciò che colpisce la loro attenzione, perché, come avranno modo di vedere, per vivere una giornata così, la tecnologia non basta.
Ecco dieci punti che ci aiutano a scandire questo stimolante MTalk.
1- Internet non è un nuovo media, ma un nuovo habitat
Iabichino entra nella pubblicità come copywriter in un momento storico in cui questa soffre parecchio: se prima è ‘fabbrica delle meraviglie’, ora comincia a essere considerata un mestiere a tutti gli effetti; gli investimenti si riducono e si avverte da parte delle persone una disillusione verso un mezzo che perde il carisma e il fascino di un tempo.
In un simile scenario, Internet irrompe come nuovo ‘campo da gioco’, trasformando radicalmente anche il modo di fare pubblicità: il filo che separa ATL e BTL si spezza, e tutto ciò che viene messo in circolazione rompe il muro del suono ed è subito mainstream. Nel nuovo habitat, la scansione dei contenuti da parte degli utenti non è più sequenziale (e consequenziale), e ciò condiziona la creatività e le riflessioni su un mestiere da ripensare.
È il 2006, quando Ogilvy & Mather realizza la rivoluzionaria (e pluripremiata) campagna pubblicitaria di Dove per promuovere la bellezza autentica, con un video che si diffonde viralmente sul web sensibilizzando decine di milioni di utenti.
Sono i primi segni del marketing esistenziale, che con Internet impara a parlare con voce umana.
2- Facciamo Invertising
La crisi imperversa, e la pubblicità sembra non accorgersi che il consumatore è cambiato, continuando a spingere – push – su messaggi che non fanno più presa. Manca l’ascolto, quello vero. Allora la pubblicità deve cambiare alla radice, a partire dalla sua grammatica: una riflessione che nasce dalla semantica, per una pubblicità finalizzata a tirare – pull – l’attenzione dei suoi interlocutori – non più target! – per intrattenerli e convincerli, e non solo a riempire il carrello della spesa.
Invertising, ovvero se la pubblicità cambia il suo senso di marcia è il nome del libro che Paolo Iabichino scrive nel 2009, trasformatosi in seguito in blog. L’obiettivo? Ridisegnare la grammatica pubblicitaria, dimostrando che cambiando significante e significato si generano nuovi paradigmi.
3- Questo è il mio modo di stare nel mondo: se ci credi, sceglimi
In questo nuovo scenario, il compito delle marche è quindi quello di governare la conversazione con gli interlocutori, mettendo in circolazione contenuti che proteggono il ‘posizionamento’ della marca. Non il brand positiong comunemente inteso, ma bensì la posizione che deve assumere la marca sul mercato è quella che Roberts descrive in Lovemarks: amore e rispetto, per una marca che appartiene alle persone e che si racconta in modo da creare adesione e consenso.
Perché i consumatori comprano, ma gli individui scelgono.
4- La marca si racconta e incrocia il destino delle persone: il tag dell’empatia
Così delineate, le marche diventano agenti culturali, e le persone diventano parte del racconto della marca. Certamente le idee e la creatività sono ancora il vettore principale del mestiere pubblicitario per le marche, ma il primo obiettivo è il plauso degli interlocutori.
Le persone cliccano le nostre applicazioni, condividono le nostre pubblicità, si emozionano davanti ai nostri video e fanno in modo che queste emozioni contagino altri utenti e poi altri e poi altri ancora…
I social network sono i palcoscenici nei quali la creatività contribuisce ad avvicinare marche e persone su un piano più empatico rispetto al passato. L’apprezzamento –che si manifesta tramite i like, le condivisioni e i contenuti delle conversazioni- è diventato la nuova moneta di scambio sul mercato delle idee.
5- Le tesi da ricordare sono 95
La prima indimenticabile lezione per le imprese che intendono operare nel nuovo mercato interconnesso risale al 1999, quando viene scritto il The Cluetrain Manifesto: un invito all’azione che si sviluppa attraverso 95 tesi, al tempo non comprese appieno, ma che oggi dovrebbero risuonare all’interno di qualsiasi impresa.
Nel 2015 Doc Searls e David Weinberger pubblicano una nuova edizione del Manifesto, in 121 punti, dal titolo New Clues, tradotto in italiano come “Nuove Tesi”.
6- Tutti i mestieri di mediazione muoiono: perché dovrebbero salvarsi le agenzie di comunicazione?
Se tutti i grandi mestieri di mediazione sono destinati all’estinzione, ci si chiede allora per quale ragione il marketing media da parte delle agenzie di comunicazione non possa subire la stessa fine.
80. Niente paura, potete ancora fare soldi. A patto che non sia l’unica cosa che avete in mente – The Cluetrain Manifesto
Ciò che viene mediato è la narrazione, non le informazioni sui brand: le agenzie di comunicazione costruiscono i racconti di marca e le marche di oggi non vivono senza questi racconti.
7- Dalla big idea al big ideaL
Le aziende che cercano di posizionarsi devono prima prendere posizione: non servono nuove buzz word per riscattare la professione, né tantomeno grandi idee, ma occorre rinnovare il modo in cui rivolgersi alle persone.
È nell’espressione “la marca crede che il mondo sarebbe un posto migliore se…” che si racchiude ciò che Ogilvy & Mather definisce big ideaL, intrecciando la tensione culturale, ossia l’assumere una posizione sui grandi e i piccoli temi dei nostri tempi, con il brand best self, e quindi la concretizzare questi punti di vista.
L’esempio che viene portato è ancora una volta quello di Dove, che nei racconti di marca intreccia perfettamente i destini delle persone, giocando da anni sul campo dell’autostima. Una presa di posizione forte, rischiosa e coraggiosa, che critica l’ideale di bellezza precedentemente stereotipato dai media (tensione culturale) attraverso una proposta di valore pertinente: per riempire di senso questo nuovo ideale, ossia la bellezza autentica, l’azienda arriva a proporre prodotti pro-age (brand best self).
8- What do we want people to feel?
Come vogliamo che le persone si sentano in contatto con il prodotto? È la prima domanda che dovrebbe essere posta in ogni brief, per trasformare una tensione immaginaria in istanza reale.
La pubblicità diventa così un oggetto sociale, per una marca che deve essere persino disposta a negare se stessa: il mestiere diventa certamente più difficile, ma al contempo maggiormente gratificante (e misurabile immediatamente attraverso la reputazione).
9- La formula della pubblicità perfetta
Maurice Levy nel 2015 propone un’espressione matematica per sintetizzare le caratteristiche che deve avere la pubblicità perfetta: un’unione di tre quozienti da sommare con “maledetta rapidità” (anche a costo di sbagliare in un primo momento) per genere un’intelligenza creativa.
10- E quindi?
Come fare a dimostrare la promessa di marca davvero? Si tratta di andare dentro le parole, riflettendo sui significati trasmessi dalla marca e agendo concretamente sulle istanze sociali.
Iabichino ci parla dei suoi ad come oggetti che possono essere toccati, scherza sui retroscena di vari brief aziendali e discute le trasformazioni di un mestiere, quello della pubblicità, che ritrova negli ideali e nella narrazione di questi il proprio motore.