
Negli Stati Uniti sconvolti dalla pandemia, alle proteste e ai disordini nelle strade si aggiungono le controversie online. A scendere in campo sono le piattaforme social, anzi una piattaforma nello specifico: Twitter. Diventa inevitabile il confronto e la contrapposizione nel medesimo contesto di Facebook, che decide per lo più di non schierarsi e rimanere passiva.
26 maggio, h. 2:17. Trump attraverso due tweet diffonde una notizia fraudolenta sui processi di voto in vista delle elezioni presidenziali che si terranno a novembre. A questo punto, Twitter sceglie di segnalare la tendenziosità della notizia, con opportuno rimando a una pagina informativa di debunking.
La piattaforma prende vita: da foglio bianco su cui poter scrivere, si fa correttore e regolatore di un’informazione veicolata in modo corretto. Ad ogni modo, è interessante che la regolazione non sia avvenuta attraverso una censura e un’eliminazione del contenuto, ma piuttosto con una verifica di quanto scritto nel tweet e il rimando attraverso un disclaimer.
La reazione di Trump non si fa attendere, scagliandosi contro la piattaforma e annunciando di prendere misure. Infatti, minaccia di chiudere i social e dichiara che le piattaforme non dovrebbero essere così libere di manifestare le proprie opinioni censurando le altre, ritenendo peraltro che godrebbero di “troppa immunità”.
Così, il 28 maggio il Presidente degli Stati Uniti in tutta risposta firma un ordine esecutivo per limitare la protezione legale concessa ai social media dall’attuale legge federale; in tal modo, le piattaforme diventerebbero perseguibili nel caso in cui si prendessero troppe libertà nel censurare e chiudere account. Inoltre, Trump alzando il tiro aggiunge che se ci fosse un modo legale per chiudere Twitter lo farebbe: un’affermazione a dir poco pericolosa.
Tuttavia, è possibile che l’ordine possa subire ricorso in tribunale e essere reputato incostituzionale, in quanto violerebbe i principi del Primo Emendamento, garante della libertà di stampa e di espressione. Così, questa si rivelerebbe come l’ennesima goliardata propagandistica del Presidente degli Stati Uniti.
Black Lives Matter e proteste
Ma non è tutto. Un’altra azione di Twitter aumenterà l’irritazione di Trump, ma per comprenderne appieno la potenza politica dell’atto, è necessario chiarire il contesto in cui si muove.
Minneapolis, 25 maggio 2020: La polizia americana compie l’ennesimo omicidio di un sospettato di colore: si tratta di George Floyd, trattenuto dalla polizia per una banconota falsa. In un clima di tensione esponenziale, questo avvenimento diventa la goccia che fa traboccare un vaso già colmo da tempo. Così, prendono vita le proteste per cercare di ottenere giustizia per un ragazzo ingiustamente ucciso a causa del colore della sua pelle. Uno dei tanti casi di omicidio di matrice razzista avvenuto per mano di un poliziotto bianco, consapevole di rimanere impunito, così com’è successo nella maggior parte dei precedenti casi.
L’episodio ha acquisito visibilità grazie alla viralità del video, diventato prova inequivocabile dell’omicidio e che, di conseguenza, ha smosso l’opinione pubblica provocando i movimenti di protesta. Tuttavia, anche la pandemia e le chiusure forzate (che a loro volta hanno portato a diversi licenziamenti, soprattutto nella comunità black) hanno creato un clima di malcontento e nervosismo. In tale contesto di rivolte, moltissimi sono i personaggi influenti che hanno preso posizione sostenendo la causa del movimento che prende il nome di “Black Lives Matter”. Tra questi non c’era il Presidente degli Stati Uniti, che anzi non faceva che fomentare i disordini.
La posizione delle piattaforme
Il 29 maggio, nonostante l’ordine esecutivo di Trump del giorno precedente, Twitter sceglie di segnalare un contenuto di Trump come inneggio alla violenza.
Jack Dorsey, il fondatore di Twitter, non solo non si lascia intimorire dagli attacchi di Trump, ma continua a svolgere azioni di verifiche anche nei tweet del Presidente. Inoltre, nel farlo si assume le proprie responsabilità, cercando di preservare i propri dipendenti.
Fact check: there is someone ultimately accountable for our actions as a company, and that’s me. Please leave our employees out of this. We’ll continue to point out incorrect or disputed information about elections globally. And we will admit to and own any mistakes we make.
— jack (@jack) May 28, 2020
Dunque, da un lato abbiamo Twitter che prende posizione e conduce un’attività di debunking nei confronti dei tweet tendenziosi del presidente Trump. Dall’altro lato Facebook, che cerca di rimanere neutra e passiva. Saranno proprio le affermazioni di Zuckerberg a marcare questa linea, ritenendo che le piattaforme non si debbano porre come arbitri.
Posizione notevole, dal momento in cui Facebook declama la propria trasparenza, nella speranza di ritrovare una sorta di credibilità dopo gli eventi che l’hanno vista colpevole (il caso Cambridge Analytica). Inoltre, a questo proposito, durante il periodo di infodemia, si è resa partecipe di alcune iniziative contro la diffusione di fake news.
Tuttavia, se a produrre le fake news sono esponenti politici, l’intervento della piattaforma si vanifica. Ad esempio, per quanto riguarda appunto Donald Trump o, facendo un esempio nostrano, Matteo Salvini (basti pensare al caso del tg Leonardo, vecchio servizio posto a prova di teorie complottiste, la cui diffusione è stata amplificata dal leader della Lega). Infatti, Zuckerberg affianco alle declamazioni di trasparenza, pone una postilla per cui se un contenuto fosse di interesse per molte persone, rimarrà sulla piattaforma senza subire alcuna censura.
Ciononostante, il 18 giugno anche Facebook decide di agire su un post di Trump, o meglio della pagina ufficiale che ne gestisce la campagna elettorale (Team Trump), eliminando uno spot contro il gruppo ANTIFA. Infatti, all’interno vi era un’immagine di un triangolo rosso rovesciato usata dai nazisti per schedare i prigionieri politici. Il social ha dichiarato che il contenuto violasse le norme sui messaggi di incitamento all’odio e per tale ragione ha scelto di censurarlo.
Avrà contribuito lo sciopero dei dipendenti di Facebook?
Le dichiarazioni di Zuckerberg avevano l’obiettivo di non farsi coinvolgere dalle polemiche contro il Presidente degli Stati Uniti. D’altro canto, hanno portato a una reazione dei dipendenti interni della piattaforma. Moltissimi hanno scelto di prendere posizione contro la scelta “politica”di passività del fondatore di Facebook, dissociandosi da essa.
Infatti, il primo giugno molti hanno deciso di aderire a uno sciopero virtuale. Tra questi, una figura di spicco del team Facebook: Ryan Freitas, manager della divisione Newsfeed, che si è detto contrario a quanto affermato dal fondatore della sua azienda. Altrettanto interessante è il mezzo scelto per veicolare tale protesta: il social “antagonista” Twitter.
Campagna elettorale a colpi di fake news: Facebook vs Twitter
Questa contrapposizione politica tra le due piattaforme non è la prima volta che si manifesta, anzi vi sono dei precedenti che pongono le basi alle attuali scelte di comportamento. Infatti, a ottobre 2019 vi era stato il caso del video disinformativo diffuso da Trump contro Biden attraverso la pubblicità. A questo proposito, Zuckerberg sottolineava il concetto di democrazia, dicendo che la responsabilità fosse delle persone che dovevano capire da sole a cosa credere, piuttosto che delle piattaforme nel regolare i contenuti; tuttavia, in caso di dubbio, la cosa migliore è concedere la libertà di espressione. Per dirla in altri termini, un giro di parole quello del fondatore di Facebook, che si presenta più come uno scarico di responsabilità.
Al contrario, Twitter in merito alla stessa vicenda ha scelto di eliminare la pubblicità politica, onde evitare casi tendenziosi come quello di Trump contro Biden. In questo caso specifico, la questione interessava la pubblicità, che attraverso la sponsorizzazione mirata poteva arrivare a determinati target influenzandoli. Azione che nelle logiche di marketing sarebbe considerata ben riuscita, ma nelle dinamiche politiche si presenta come poco etica e affatto trasparente, peraltro con la possibilità di veicolare anche messaggi ingannevoli.
Inception di fake news
Le continue vicende di censura e controllo dei post pubblicati da Trump sembra non avere mai fine in questi giorni. Il 18 giugno si è presentato un nuovo caso che vede coinvolta la CNN. Trump ha condiviso un video con il logo della famosa emittente televisiva, che poi si scoprirà essere stato manipolato. Nel video fake si mostrano due bimbi che si inseguono e in sovraimpressione appaiono delle scritte che etichettano il bambino bianco, che inseguiva l’altro bimbo di colore, come razzista e probabile elettore di Trump. In realtà, nel video originale riportato dalla CNN nel 2019 e diventato virale, i bambini dopo essersi inseguiti finivano per abbracciarsi.
Trump ha condiviso il video pensando di smontare una fake news della CNN, che manifesterebbe pregiudizi nei suoi confronti. Mentre, alla fine è stato nuovamente lui a condividere un video falso. A quel punto, Twitter non ha esitato ad apporre al video la scritta di “contenuto multimediale manipolato”.
Trump ha diminuito il proprio uso di Twitter?
Come visibile dalla tabella riportata sotto, l’uso di Twitter di Trump non sembra diminuire considerando che i tweet di giugno analizzati sono compresi dal 1 al 20 giugno e in numero hanno già superato tutti quelli del mese di marzo.
Osservando gli ultimi mesi si può notare un picco di quantità di tweet nel mese di maggio: per un totale di 1073 tweet. In merito a questo mese, si può altrettanto rilevare un calo di tweet nella giornata del 25 maggio, giorno dell’uccisione di George Floyd, per poi salire nei giorni immediatamente successivi che corrispondono all’inizio delle proteste. Invece, per quanto riguarda il picco principale: il 10 maggio corrisponde al giorno in cui Obama ha criticato l’operato di Trump nel gestire l’emergenza coronavirus definendolo un “caotico disastro”.
Per quanto riguarda il mese di giugno, si può notare un andamento diverso dei tweet con un picco il 5 giugno dove sono raggiunti i 150 tweet giornalieri (sebbene la quasi totalità siano retweet). Tra i trend su Twitter in quel giorno vi erano #PoliceBrutalityPandemic e #ThirdAmendment: per quanto riguarda il primo, si trattava di alcuni video che circolavano su ingiustizie compiute dalla polizia nel sedare rivolte, mentre il secondo hashtag si riferisce alle accuse per le violazioni di Trump del Terzo Emendamento. Infatti, era stata autorizzata l’incursione dei militari nelle diverse località degli Stati Uniti, usati contro i contestatori.
Ciò che è certo è che il Presidente Trump non rinuncerà facilmente a Twitter, essendo uno dei principali mezzi con cui interagisce con i suoi elettori. Sicuramente l’uso che ne fa è anche funzionale a cercare di depistare le eventuali proteste sollevate. Infatti, non appena vi sono accuse nei suoi confronti il numero dei suoi tweet aumenta considerevolmente.
Al di là di queste strategie legittime, è altrettanto legittimo invece poter dire ciò che si vuole rimanendo impunito? Anche se si tratta del Presidente degli Stati Uniti? O forse soprattutto se si tratta del Presidente degli Stati Uniti?
Le implicazioni della libertà di espressione online
Siamo sicuri che le piattaforme debbano rimanere fuori dalle dinamiche al loro interno? Non è necessario che qualcuno intervenga per regolarle dalla loro anarchia informativa?
Prima di tutto, bisogna valutare bene cosa si intenda per libertà di espressione. Infatti, dovrebbe prevalere sempre il concetto che la propria libertà finisca laddove mini quella altrui. Se questo vale nella vita reale, deve riproporsi nella stessa modalità in quella online. Spesso, la percezione è che quanto viene detto sui social sia considerato meno grave e di minor peso rispetto alle dichiarazioni fatte, ad esempio, a un comizio. Per questa ragione, la libertà di espressione su internet si pone come senza filtri e immune da ripercussioni. Non dovrebbe essere così.
I social network devono porre delle regole per il bene comune della propria community e farle rispettare. O quanto meno è necessario forniscano gli strumenti per comprendere la grande mole di contenuti di cui si può fruire nelle proprie piattaforme. La società online dovrebbe possedere gli stessi principi di quella reale e i primi a doverli rispettare sono proprio i personaggi di potere. Ormai i due piani (online e offline) non fanno che intersecarsi e non possono considerarsi distinti. La maggior parte dei processi politici, soprattutto propagandistici, avvengono attraverso i social network. Il punto focale su cui le piattaforme devono concentrarsi in questo contesto è la verifica delle notizie.
Ulteriori considerazioni
A mio avviso, un punto fondamentale per il controllo delle notizie è che sia umanizzato e non realizzato da bot automatici, in quanto è importante fornire un contesto alle notizie. Ad esempio, non andrebbe rimosso un testo falso usato per fare debunking, perché si tratta di un’operazione di verifica della verità.
D’altro canto, è altrettanto necessario che si mettano dei paletti in merito ai post su cui agire: sicuramente lottando contro le fake news incontrovertibili, ad esempio quelle in campo medico, che rischiano di essere dannose; ma anche agendo su tutto ciò che concerne a retoriche violente e discriminatorie, soprattutto se a farle proprie sono personaggi di rilievo.
Sicuramente la disputa politica-informativa-social non finirà qui, ma è in un continuo evolversi. Riusciranno le piattaforme a trovare il giusto equilibrio tra la libertà di espressione e il contrasto alla disinformazione?