
Le emoji ormai sono entrate di diritto nel linguaggio di internet. Se si comunica online, infatti, le emoji aiutano a focalizzare l’attenzione degli utenti su alcuni elementi particolari, aiutano a tematizzare, e sicuramente fermano l’occhio del lettore.
Il linguaggio quotidiano sta cambiando, e nell’era digitale non è di certo influenzato solo dalle conversazioni orali tra le persone, ma anche dalle conversazioni in chat private o sui social network. Sono mutate anche le aspettative che hanno gli utenti: sempre di più ci si attende una comunicazione informale, basata sulla velocità dell’informazione e sulla parità del confronto: insomma, il “ciao” sostituirà il “buongiorno”, probabilmente ci daremo del tu come fanno gli americani da sempre, e magari affiancheremo il “ciao!” con un’esplicativa emoji di una faccina sorridente.
Proprio come era avvenuto quindici anni fa, quando i 160 caratteri degli SMS costringevano a utilizzare abbreviazioni obbrobriose che deturpavano la lingua italiana, ora lo stesso sta avvenendo per le emoji.
Ecco, chi scrive in realtà non è esattamente cosciente di quanto le emoji stiano impattando sulla comunicazione tra le persone e sulla comunicazione d’impresa: quel che è certo, però, è che la comunicazione sta cambiando, proprio perché sta cambiando il modo in cui ne fruiamo: su schermi sempre più piccoli come quelli degli smartphone, con segnali sempre più veloci come le emoji, in tempi sempre più sovrapposti con altre attività (qualcuno ha detto multasking?). Provate a buttare un occhio a un computer di un collega in ufficio, che nello stesso tempo avrà aperti Skype, Slack, Telegram e Outlook).
Cosa possono significare le emoji, per uno scrittore del web?
In attesa di ricerche che riproducano evidenze scientifiche, possibilmente attraverso tecnologie di eye tracking (se non vi ricordate in cosa consiste questa tecnica, ne avevamo parlato nell’articolo relativo alla scrittura sul web: vi invito a ripassare!), mi è venuta un’intuizione: le emoji rendono più leggera la lettura, e in questo modo rendono più “pleased” il lettore. È chiaramente solo un’ipotesi, che sarebbe da verificare 🙂
Personalmente, mi è capitato di usare le emoji molto spesso: all’interno di copy per i social, in newsletter, negli oggetti per newsletter, e persino in articoli scritti per i blog. Ah, e chiaramente decine di volte al giorno nelle centinaia di messaggi privati che invio su Telegram, Skype, Whatsapp, iMessage, Facebook Messenger e quant’altro. E ne ho viste usare spesso, di emoji, più o meno a partire dalla metà del 2015, da altri utenti ma anche, sorprendentemente, dai brand sui social.
Il 2015, quando la parola dell’anno risultò essere un emoji
D’altronde, la “parola” del 2015 secondo l’Oxford Dictionary è stata proprio una emoji, nello specifico quella più utilizzata dagli utenti: cioè quella della faccina che ride fino a piangere, “The Face with Tears of Joy”. Questo ci fa ragionare soprattutto sul fatto che una emoji sia stata considerata al pari di una parola. E se è così, significa che il linguaggio è davvero cambiato, così come è cambiato il nostro modo di comunicare: attraverso le emoji, è sicuramente meno mediato da parole, e più da simboli, il che potrebbe sembrare un’involuzione. E forse lo è, ma ciò che ritengo rilevante è l’evoluzione nel modo di comunicare.
Per approfondimenti, ne ha scritto Paolo Iabichino in un suo magistrale articolo, il quale considera la faccina che ride come parola dell’anno come un’abdicazione da parte degli utenti, che hanno paura delle loro emozioni, o che non hanno nemmeno più il tempo di esprimerle. Ma dopotutto adesso gran parte del lavoro di interpretazione spetta ad antropologi e sociologi: e noi, da uomini di marketing dovremmo comprendere i cambiamenti sociali in atto, più che giudicarli.
Nella vita di un marketer, poi, è centrale il rapporto che questo ha con le parole: scrivere, o leggere, è un requisito imprescindibile per chi fa questa professione. È nelle parole, infatti, che scorre l’essenza della comunicazione, che non è solo una delle 4 P del marketing, ma è soprattutto l’atto di relazionarsi tra individui – quindi tra aziende e persone, e tra persone. E la cosa è diventata più evidente che mai nel 2016, quando ormai la comunicazione sui social media e attraverso i mezzi digitali ha raggiunto la piena maturità, con oltre 3 miliardi di persone connesse a internet, delle quali 1,7 miliardi sono su Facebook e 1 miliardo usano Whatsapp.
E le emoji sono parole, dotate di significati e significanti? No: sono pittogrammi. Dei simboli, alla pari dei segni che gli uomini primitivi lasciavano sulle caverne. Anche quella era considerata una forma di “content marketing: questo (s)conosciuto”, ma secoli di scrittura, lettura e cultura dovrebbero avere portato l’uomo a evolversi, no?
Facciamo che le emoji non sono sostitutive delle parole, ma integrative
Utilizziamo davvero la faccina che ride fino a piangere per evitare di dire “quanto mi hai fatto ridere”? La emoji del cuore sostituirà davvero le due magiche parole “Ti amo”? È plausibile pensare che l’essere umano possa abdicare davvero alla sua spinta innata di comunicare in modo complesso attraverso le parole? Sicuramente le emoji consentirebbero una comunicazione più diretta e meno mediata da un costrutto razionale come sono le parole. Ma le emoji, per come sono nate e per come si stanno inserendo nel nostro vissuto, sono certamente integrative, e non sostituive, delle parole.
Pensate a una conversazione che tenete con una qualsiasi persona: oltre alle parole – che probabilmente rappresentano la parte cosciente della vostra comunicazione (appunto, la comunicazione verbale) – metterete anche in atto una mimica facciale, composta da espressioni di gioia, tristezza, paura, disgusto, sorpresa o rabbia (le sei emozioni di base, esatto). Ecco, le emoji non sono altro che le espressioni facciali trasposte nelle conversazioni digitali.
Le emoji sono il modo in cui esprimiamo le nostre emozioni nelle altrimenti fredde conversazioni digitali.
Ma vengono davvero usate così tanto queste emoji?
Sì, le emoji vengono davvero usate tantissimo: pensate che alla fine del 2015, su 2 miliardi di persone che possedevano uno smartphone, venivano inviati ogni giorno 41,5 miliardi di messaggi e 6 miliardi di emoji nelle app di messaggistica istantanea, dice Digiday.
Proprio a causa di questi numeri molto promettenti, Instagram alla fine del 2015 ha deciso di consentire ai propri utenti di usare le emoji come hashtag: più della metà dei post, infatti, ne contenevano già. Quindi, perché non permetterne la tracciabilità con gli hashtag? E lo stesso peso alle emoji viene dato da Snapchat, il quale consente di aggiungere le faccine e altri tipi di sticker dopo avere scattato una foto o girato un video.
Le emoji quindi costituiscono il linguaggio naturale dell’utente sui social, che utilizza e manipola le creazioni della rete per condividerle a sua volta e creare qualcosa di nuovo. Questo dinamismo fa sì che le piattaforme social inseriscano le emoji come strumenti da utilizzare all’interno delle stesse. E c’è qualcuno che fa anche di più.
Twitter e l’emoji targeting, e altri utilizzi delle emoji da parte dei brand
Twitter, infatti, a giugno 2016 ha lanciato la possibilità di targetizzare le pubblicità attraverso le emoji, con l’emoji targeting. Come dice Andrew Hutchinson di Social Media Today, potrebbe sembrare uno scherzo, ma… ci sono tutte le ragioni del mondo, e vediamole insieme. Le emoji sono in costante crescita: a partire dal 2014, sono state twittate più di 110 miliardi di emoji. Ricordiamo che i 140 caratteri di Twitter non possono che stimolare l’utilizzo di abbreviazioni, e che Twitter a Novembre 2015 è passata dalle “stelline” ai “cuoricini” come reazione per esprimere il “mi piace”. Secondo uno studio di FiveThirtyEight, infatti, i cuori sono le emoji più utilizzate sulla piattaforma:
Un modo molto efficace in cui può avvenire il targeting sono l’utilizzo delle emoji con alcuni particolari alimenti: gli hamburger, le fette di pizza e il caffè, soprattutto. E forse se siete dei rivenditori locali (o anche delle grandi catene) rivolgervi a degli utenti che twittano queste emoji in particolari fasce orarie della giornata può non essere del tutto fuori dalla logica.
E si sa, nei social network le aziende utilizzano un linguaggio più umano (o perlomeno dovrebbero): non sono poche, quindi, le aziende che hanno iniziato ad utilizzare le emoji nella propria comunicazione online. C’è chi, come Wendy’s, addirittura utilizza l’emoji dell’hamburger nel proprio nome utente:
Poi c’è chi, come Alitalia, utilizza le emoji negli oggetti email (a noi piace pensare che abbiano copiato This MARKETERs Life):
Vediamo poi che un brand giovane come Hawkers utilizza da sempre le emoji nei propri copy su Facebook anche come stimolo commerciale: le emoji in questo caso evidenziano il link per fare shopping online e sottolineano le caratteristiche di prodotto.
Ma pensate che le emoji siano utilizzate solo nella comunicazione? Affatto: Domino’s Pizza, sin da Maggio 2015, ha messo in atto il food delivery attraverso Twitter… partendo dalla semplice emoji della fetta di pizza:
I risultati in realtà non sono così efficaci come Domino’s prospettava, però si tratta di un esperimento esteso dalla piattaforma Fooji: fan experiences + emojis. La piattaforma crea delle partnership con i brand che si possono associare a una particolare emoji (non solo attività di ristorazione, quindi: pensata alla emoji delle note musicali per dei contenuti musicali) e che desiderano fare attività di marketing o di promozione attraverso Fooji.
Ma le attività di marketing associate alle emoji possono davvero avere come unico limite l’immaginazione (e la tecnologia).
Il futuro delle Emoji secondo Facebook
Dopo aver visto tutto questo ventaglio di possibilità attraverso le emoji (quando credevo ancora di poter chiudere l’articolo entro le 1500 parole :P), pochi giorni fa ho scoperto come Facebook vede il futuro delle emoji, attraverso la realtà virtuale. Se pensavamo che le Facebook Reactions (che in effetti sono delle emoji) potessero rappresentare il massimo delle emozioni che potevamo esprimere su Facebook, indossando dei visori di realtà aumentata potremo presto avere degli avatar – dei veri e propri “alter ego” digitali – che avranno una determinata reazione virtuale in base ad alcuni nostri movimenti. Ecco degli esempi, così come descritti da Tech-Crunch:
Shake your fist and your VR avatar’s face will turn “angry.” Put your hands on your face Home Alone-style to express “shock.” Triumphantly thrust your hands in the air and your virtual self’s face will show “joy.”
Questa evoluzione sì che la vedo un po’ inquietante: se secondo Paolo Iabichino con le emoji le persone abdicano alla propria umanità, con le virtual reality emoji abdicheremmo anche alla nostra fisicità.
Staremo a vedere. Le opportunità di utilizzo delle emoji sono molte, e possono anche essere usate simpaticamente dai brand, coerentemente con la loro identità di marca, per comunicare in modo innovativo con i propri clienti e potenziali clienti.
Nel frattempo, per tutto il resto e dopo tutto questo discutere, penso che la mia reazione sia questa:
Dio Campera su cod