
Dalla corsa agli e-commerce alla voice technology, dalla visual search alla realtà aumentata passando per TikTok, i podcast e il remote/smart working. Come si sta evolvendo lo scenario digitale e quali trend potranno ispirare il nostro 2021?
Questo 2020 possiamo dire che ha fatto di tutto per farsi ricordare. Ha travolto le vite di milioni di persone e ha scosso all’improvviso tanti e tanti mercati (alcuni in positivo).
In questo nostro annuale appuntamento con i trend del digital marketing non possiamo non tenere conto di queste scosse ma dobbiamo anche constatare che così come alcuni trend si sono accentuati quest’anno, altri invece si sono affievoliti e sono passati in secondo piano, pronti magari a ritagliarsi il loro spazio durante il prossimo anno.
Inoltre sul web è un impazzare di previsioni a volte anche in contrasto tra loro e se già il futuro era difficile da prevedere prima del Covid-19, figuriamoci dopo uno shock simile. Eppure ci intriga, soprattutto a noi markettari affamati di novità, immaginarci tanti cambiamenti nelle abitudini di consumo, di lavoro, di fruizione dei media. Perché su una cosa l’opinione pubblica sembra abbastanza concorde: indietro non si torna. Lasciata alle spalle questa pandemia saremo profondamente cambiati. Vedremo.
Intanto il marketing non si ferma e quale momento migliore per ricordarci una delle sue principali peculiarità come disciplina: il miglior marketing, infatti, è quello che meglio si sa adattare al cambiamento. E questo in certi mercati ha fatto in questi mesi la differenza tra il sopravvivere o meno.
Certo, non tutto ciò che è considerato “trend” va cavalcato per forza: per chi lavora in azienda è bene conoscerli ma ognuno deve poi calarli nel proprio business e non saltare sul primo carro in preda alla foga da “maniac-innovator”.
Allo stesso modo, chi, come me, si occupa di consulenza è bene che approfondisca i trend in cui si sente più debole, ma non è chiamato a proporre a un cliente qualunque novità senza tenere conto di obiettivi, strategia e risorse dell’azienda.
Ecco quindi alcuni trend che ho scelto tra i tanti. Ve li elenco qualora vogliate saltare di palo in frasca:
Visual Search: il regno di Pinterest e non solo
Remote e smart working
Sicuramente uno degli argomenti più dibattuti su LinkedIn in questi mesi. L’Italia (e buona parte del mondo) ha scoperto lo smart working grazie al lockdown che ne ha certamente accelerato la diffusione, con buona pace di chi fino all’anno scorso lo considerava un tabù o peggio ancora un innominabile alla stregua di Voldemort.
In realtà l’Italia ha solo scoperto il remote working. Perché la maggior parte di chi oggi fa smart working lo faceva già prima. Lavorare lontano dall’ufficio, magari con una scrivania nuova e un secondo monitor e una serie di altri accessori, non ti rende smart. Lo smart working è un tema di cultura e processi, non di tecnologia.
Si saranno anche moltiplicate le call su Meet/Zoom/Skype/Teams, si saranno ridotti certi costi per l’azienda (illuminazione, mensa, ecc.) e per i lavoratori (in primis i trasporti), si sarà ritrovato più tempo, più equilibrio tra vita personale e lavorativa (per chi ci riesce), ma senza una vera revisione dell’organizzazione aziendale i dipendenti continueranno a essere pagati per le loro ore e non per le loro performance.
E se sono innegabili i vantaggi che questa modalità di organizzazione del lavoro porta, esistono anche delle criticità che non possono essere ignorate: aumento delle ore lavorate, difficoltà a “staccare” dal lavoro, perdita di concentrazione, problemi di comunicazione con i colleghi, senso di solitudine e isolamento, calo di motivazione e attaccamento all’azienda, difficoltà di inserimento per i neo-assunti.
Quel 16% di lavoratori (circa 3 milioni di Italiani) che secondo Nonisma continuerà a lavorare almeno un giorno da casa nel 2021 (erano il 3% nel 2019, il 36% durante il lockdown e sono il 24% in questo finale di 2020) dovrà quindi essere formato sia sulla digitalizzazione del lavoro e sulle opportunità dello smart working, ma soprattutto su nuovi processi e flussi di comunicazione chiari e condivisi.
Il ruolo degli uffici non va demonizzato, ma certamente ripensato nell’ottica di luoghi di scambio, di incontri, di formazione e di innovazione.
I modelli di business, la comunicazione, le attività local, i servizi offerti e gli stessi prodotti andranno in certi casi ripensati, soprattutto quando il pubblico di riferimento lavora in quei settori dove lo smart working sarà ben superiore a quel 16% che è solo un “medione” a livello nazionale.
E non mi riferisco a un’omologazione dei messaggi come è stato durante il lockdown, ma semplicemente essere consapevoli che il proprio pubblico può essere in molti più luoghi durante l’orario lavorativo (che può non essere il consueto 9-18) e soprattutto avere esigenze diverse rispetto a un anno fa, sia di prodotti che di servizi.
Di esempi nati o esplosi con il lockdown se ne vedono tutti i giorni quindi vi faccio giusto un esempio di un prodotto/servizio che ha l’ambizione di sostituirsi alle mense aziendali – dove queste avranno sempre meno ragione di esistere – e che diventa supplementare (e in certi casi complementare) ai tanto citati servizi di delivery. Si tratta degli smart locker: frigoriferi aziendali controllati con un’app dove trovare i prodotti ordinati il giorno prima, da consumare in ufficio stesso o da portare a casa per lo smart working del giorno dopo (una delle ultime startup in questo mercato è FrescoFrigo).
La corsa all’e-commerce
Sicuramente avrete sentito diverse notizie di tagli e chiusure di negozi in lungo e in largo. Quella di Zara ha fatto scalpore con i 1.200 negozi, oppure H&M con 250.
Il Coronavirus non è certo stato magnanimo con chi lavora principalmente nel retail fisico o nel travel e non solo: c’è chi negli Stati Uniti ha tenuto traccia di diversi fallimenti di aziende, tra cui potreste conoscere Muji US (la sussidiaria statunitense della catena di oggettistica giapponese) e Hertz (noleggio automobili).
D’altro canto il lockdown ha dato una grande accelerata all’adozione dell’e-commerce e contestualmente una spinta alla crescita.
Lo US Census Bureau ha calcolato che in soli sei mesi l’e-commerce ha avuto negli Stati Uniti una crescita di 4,8 punti percentuali, pari a quella ottenuta negli ultimi 5 anni, ritagliandosi una quota di mercato nel retail pari al 16,1%.
Si stima che nel 2024 le vendite in-store saranno pari a 23,1 trilioni di dollari, ossia il 78,6%, contro i 6,3 trilioni delle vendite e-commerce, pari al 21,4%.
Il pareggio è ancora lontano però il trend sembra essere definito. Certo, oggi circa il 60% delle vendite e-commerce degli Stati Uniti è in mano ai 10 player più grandi, con Amazon che detiene il 38% della torta.
Eppure sembra esserci spazio per tutti e di certo qualcuno che è stato veloce a mettere in piedi un e-commerce durante il lockdown può aver limitato i danni.
Questo perché negli ultimi anni le barriere all’ingresso si sono abbassate grazie a vari servizi come WooCommerce, Prestashop, Shopify e tanti altri, che hanno reso molto più celere e soprattutto economico creare un proprio e-commerce e che quindi si sono mostrati come ancore di salvezza per chi ha dovuto chiudere le saracinesche. Shopify ha infatti dichiarato una crescita del 97% anno su anno nel Q2 del 2020.
E magari a breve sarà sempre meno necessario avere un e-commerce per vendere online. Facebook ha introdotto Facebook Shops, una funzione che permette una più agevole gestione del proprio catalogo prodotti da rendere visibile su Facebook e Instagram (e magari in futuro anche WhatsApp e Messenger). L’utente potrà così spulciare il catalogo direttamente da uno dei social network e, per adesso solo negli Stati Uniti, effettuare l’acquisto senza neanche visitare il sito.
Interessante sarà anche la funzione Live Shopping che permetterà di taggare i prodotti mostrati durante una live così da renderne più facile l’acquisto immediato. Già diversi esperimenti di cosiddetto “shop streaming” stanno prendendo vita in giro per il mondo, come ad esempio quello di Chiara Ferragni in partnership con Lancome.
Tutto questo si tradurrà in una ancora più semplice ed economica adozione da parte delle piccole imprese.
Nel frattempo Google non è rimasta a guardare: negli Stati Uniti ha introdotto la funzione “Buy on Google” che permette agli utenti di acquistare direttamente da un risultato in Google Shopping, senza quindi atterrare su un e-commerce.
Per chi già utilizza le campagne Google Shopping e possiede quindi un feed di prodotti sarà semplice provare questa funzionalità, ma per accelerarne l’adozione Google ha perfino deciso di rimuovere qualsiasi commissione e di permettere anche a chi non vuole utilizzare campagne a pagamento di apparire gratuitamente tra i risultati di Google Shopping. Insomma, una serie di mosse che suonano come una dichiarazione di guerra ad Amazon, che con i suoi 2,3 milioni di seller rimane ancora l’alternativa all’e-commerce proprietario preferita per chi voglia vendere online.
Non contenta, Google vorrebbe trasformare anche YouTube in una piattaforma e-commerce anche se al momento si tratta solo di test e non vi sono ulteriori dettagli. Sarebbe un modo per completare quanto già iniziato con i formati pubblicitari già attivi che agevolano l’acquisto di prodotti visti in un video, ma che richiedono un sito esterno a YouTube per completare la transazione.
Ma è sufficiente migrare online per cavalcare il trend e sopperire alle difficoltà degli store fisici? Chiaramente no. Vendere mediante piattaforme online (che siano di proprietà o meno) è per tanti aspetti un mestiere a parte rispetto alla gestione del negozio fisico. Servono tante e tante competenze digitali che non si acquisiscono in un giorno. Servono analisi per capire se in determinati mercati il gioco vale la candela. Serve una gestione ancor più efficiente della logistica.
Serve poi il giusto mix tra vendite Direct-To-Consumer (o semplicemente DTC), vendite su piattaforme terze, e vendite in negozio fisico, che come detto, manterrà ancora il suo peso. Serve comprendere più nel profondo il proprio brand, le sue potenzialità e come preservarlo poiché vendere mediante terzi avrà, sì, i suoi vantaggi, ma il rischio di perdere il controllo del proprio brand e vederne diluito il valore sarà molto alto.
E in generale serve raddoppiare gli sforzi per dare all’utente un’ottima esperienza di acquisto online e un’ottima esperienza di acquisto offline. Oggi così come da ormai dieci anni a questa parte diremo “un’ottima esperienza omnicanale”.
Omnicanalità
Vero, si tratta di una buzzword, ma ancora poche aziende riescono davvero ad applicarla: perché offrire un’unica esperienza utente attraverso tutti i canali, digitali e non, senza soluzione di continuità, dal primo touchpoint fino alla fedeltà nel lungo periodo è davvero complesso.
Secondo uno studio di Gladly, “2020 Customer Expectations Report”, il 79% dei rispondenti dichiara che un servizio personalizzato è più importante di un marketing personalizzato. In barba ai fanatici della privacy gli utenti vogliono che l’azienda li riconosca, tramite identificativi come nome, località e precedente conversazione, se questi riescono a personalizzare la relazione e a non far sentire l’utente come un ticket.
Queste conversazioni devono essere durature e non dipendere dal canale: l’utente odierno non vuole dover ripetere la sua problematica o la sua richiesta più volte e vuole poter intercambiare canale di comunicazione a suo piacimento (che si rechi al negozio, che scriva a un chatbot o a un indirizzo email, che chiami un numero di telefono, che parli con un assistente vocale, ecc.).
Personalizzare l’esperienza dell’utente in tutti i canali significa anche utilizzare le informazioni che conosciamo su di lui: preferenze di prodotto o di brand, taglia del vestito, ricerca di prodotto non ancora disponibile, acquisti passati, ecc. Tutto questo al fine di personalizzare qualsiasi comunicazione con lui, soprattutto nei canali proprietari: banner o pop-up sul sito, email, WhatsApp, assistente alla vendita in negozio, totem connessi a internet, ecc. Si tratta quindi una gestione dei canali fisici e digitali in modo integrato, o come spesso si dice, “phygital”.
I punti vendita andranno sempre più ripensati in ottica omnicanale, il che non significa solo concedere più opzioni di acquisto come “compra online, ritira in negozio” e “compra in negozio, ricevi a casa”, ma luoghi di comunicazione prima ancora che di vendita.
Potranno quindi diventare quei touchpoint in cui trasmettere l’essenza del brand, in cui il consumatore ne vivrà appieno i valori attraverso il cosiddetto shopping esperienziale. Un ottimo esempio di omnicanalità ce lo dà l’azienda italiana diotti.com, nata nel 1911 ma passata al digitale nel 2008 e che ha ottenuto un grande successo dall’integrazione dei due mondi, in un settore non facile come quello dell’arredamento di fascia medio-alta.
E a confermare l’importanza dello store fisico basterebbe far caso a quei brand nati online che hanno deciso di aprire dei negozi fisici. Non mi riferisco solo ad Amazon, che continua ad aprire Amazon Go e ha anche acquistato la catena Whole Foods con 500 punti vendita e che è così gigantesco da potersi permettere qualsiasi esperimento. Di esempi se ne trovano tanti facendo qualche ricerca, tra cui: Lululemon, Happy Socks, UNtuckit, Rhone, Pura Vida Bracelets, Bonobos, ecc.
Un esempio italiano è quello di Lanieri, un’azienda di Biella che dal 2012 vende online vestiti su misura e che solo di recente ha aperto dei cosiddetti “guideshop”, dei negozi (anche se il termine è improprio dato che non puoi acquistare) dove farsi guidare da un sarto nella personalizzazione del proprio abito.
Di recente Ferragamo ha stretto una partnership con Microsoft con lo scopo di fornire un servizio di personalizzazione del prodotto mediante simulazione in 3D dello stesso. Sarà utilizzabile sia in negozio che da casa.
Certo, sono tutti esempi dal mondo del fashion, un settore dove i vantaggi dell’esperienza tattile favoriscono questo “percorso inverso”, ma ogni settore ha le sue peculiarità attorno alle quali costruire delle esperienze fisiche integrabili con quelle digitali (vedi gli Apple Store).
Per approfondire il tema sull’omnicanalità vi lascio a questa intervista che abbiamo fatto a Lucio Vesentini di Pirelli.
Realtà aumentata
Quando si parla di incontro tra fisico e digitale non si può non pensare all’augmented reality o semplicemente “AR”.
Con questa espressione si intende qualsiasi output digitale (immagini, testo, modelli in 3D) sovrapposto al mondo attorno a noi. Questo potrebbe avvenire attraverso lo schermo di uno smartphone, dei visori appositi, un paio di smart glasses o persino un paio di smart lenses.
Si tratta di un mercato il cui valore nel 2019 è stato stimato in 10,7 miliardi di dollari e che raggiungerà i 72,7 miliardi nel 2024, con una crescita annuale del 46,6%.
Sono numeri che ci danno un po’ le dimensioni del fenomeno e della sua crescita, ma che vanno presi con le pinze dato che l’AR è un mercato complesso dalle tante sfaccettature. Vi è la sua componente hardware così come quella software, che già sono a loro volta due mercati ben diversi con attori spesso distinti; vi sono poi gradi di maturazione diversi con gli Stati Uniti e buona parte dell’Europa già avanti, e i mercati asiatici che vedranno un’esplosione nei prossimi anni.
E poi i campi di applicazione sono davvero innumerevoli. Viene subito da pensare al gaming dove l’integrazione tra offline e online arricchisce l’esperienza di gioco mediante nuove meccaniche (si pensi ad esempio all’ottenimento di bonus attraverso l’interazione con un oggetto reale come avviene in Pokemon Go) e in effetti è tra i campi con più alti tassi di crescita. In futuro vedremo anche una maggiore integrazione tra AR e eSports.
Vi sono interessanti applicazioni anche in settori come il Travel: mappe interattive, traduzioni di testi offline semplicemente inquadrandoli con lo smartphone, punti interattivi già all’interno delle stanze degli hotel o sparsi per le città con informazioni utili ai turisti, menu nei ristoranti o targhette nei musei che si espandono e forniscono informazioni extra, ecc.
Anche l’Healthcare è parecchio interessato all’AR (si pensi ad AccuVein o a XRHealth) o anche l’Education dove questa tecnologia migliora l’apprendimento nelle scuole, o persino l’Industria dove i lavoratori utilizzano l’AR per migliorare l’efficienza dei processi produttivi così come la sicurezza sul lavoro.
Quelle che in genere interessano di più noi MARKETERs sono le applicazioni nel retail, dove si stima che entro il 2022 almeno 120.000 negozi impiegheranno tecnologie AR.
L’AR facilita lo shopping online nel momento in cui riesce a colmare il gap di ambiguità e indecisione tra il prodotto in mostra sul sito e come sarà averlo davanti a sé, aiutando l’utente a visualizzare, tra cui:
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- fornire esperienze “try and buy” attraverso oggetti virtuali che si amalgamano con il mondo reale, un po’ come fanno diversi brand nel fashion come Topshop;
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- offrire ai consumatori informazioni istantanee aggiuntive attraverso un semplice scan del prodotto, come nel caso di American Apparel;
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- guidare all’interno del negozio, facilitando la ricerca dei prodotti, un po’ come fa Lowe’s con la sua app;
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- portare nelle case dei consumatori un’esperienza simile a quella in negozio, come nel caso di Shopify con Magnolia.
Certo, come per ogni tecnologia trendy vale sempre il principio della consistenza: l’AR ha davvero un impatto migliorativo sull’esperienza del nostro consumatore o vogliamo utilizzarla soltanto per il gusto un po’ nerd di utilizzarla?
Inoltre, se impiegata, va realizzata bene: deve sembrare realistica ‒ sia in termini di dimensioni degli oggetti che di definizione delle texture ‒, deve essere veloce a effettuare i rendering altrimenti l’utente abbandona con la stessa rapidità con cui abbandona una pagina web che si carica lentamente; infine deve essere semplice e di facile utilizzo. Ne va della sua intera utilità.
Una volta che l’AR avrà raggiunto un grado di realismo davvero accurato non si esclude che possa di fatto diventare il mezzo principale per guidare il consumatore nel suo processo d’acquisto. Se questo dovesse accadere pensate a che impatto potrà avere per le aziende la raccolta di dati sulle scelte di consumo.
Qui trovate una serie di progetti di AR tramite app iOS a cui Apple dà visibilità.
E se l’argomento vi interessa molto vi consiglio di seguire Norbert Kovacs, CTO di Inde, azienda inglese all’avanguardia nella tecnologia AR.
Voice Technology
Si è accennato al ruolo degli assistenti vocali come nuovo touchpoint eppure quando si parla di trend della voice tech si tende a pensare alle sole ricerche vocali ma sarebbe oggi un limitarsi a ciò che concerne squisitamente la SEO (e, in minima parte, la ricerca a pagamento) anche se è pur vero che stando a Google il 20% delle ricerche è ormai vocale.
Ma il mondo della voice technology è più ampio di così e riguarda il device fisico, la speech recognition, l’intelligenza artificiale, il machine learning e tutto l’ecosistema di app vocali disponibili per gli utilizzatori finali.
Questa tecnologia a servizio dell’interazione uomo-macchina attraverso la voce sta diventando di anno in anno sempre più sofisticata (da un punto di vista tecnologico), ma anche semplice (in termini di utilizzo) e sta quindi modificando il comportamento degli utenti anche nel mass-market e non solo tra gli early adopter.
Anche nell’anno del Covid-19, non si placa la diffusione degli smart device. Il recente studio di Canalys “Global smart speaker market 2021 forecast” mostra una crescita prevista di 320 milioni di smart speaker nel mondo entro il 2020, con una progressione verso il raddoppio entro il 2024.
Nella presentazione dei dati, è interessante il commento: “The global smart speaker installed base is forecast to reach 640 million by 2024, paving the way for the ambient computing paradigm shift”. L’Ambient Computing, ossia il contesto in cui sensori e dispositivi che ci circondano agiscono in sinergia tra loro, è un concetto che sia Google che Amazon nominano con insistenza ed è probabilmente la via verso la quale ci stiamo avviando grazie proprio a questa enorme diffusione di device, che incrementerà grazie alla contestuale diffusione dell’Internet of Things e del 5G.
Scavolini ad esempio ha appena lanciato una linea con Alexa incorporata, che offrirà i normali servizi dell’assistente, ma anche un’integrazione con tutti i componenti d’arredo, permettendo di programmare gli elettrodomestici, l’illuminazione, le tapparelle, l’antifurto, l’home audio-video musica e climatizzatore.
Tra le categorie di dispositivi che avranno maggior crescita vi sono gli “smart personal audio”, ossia i dispositivi indossabili il cui scopo primario è consumare contenuti audio (cuffie wireless in primis), seguono gli smart speaker e gli altri indossabili come smartwatch e smartband.
Il 2020 è anche l’anno in cui Google ha creato un sistema dedicato al settore ospitalità (Google for Hospitality), che mira ad assistere l’utente nelle camere e alla reception attraverso Google Assistant e smart display (Nest Hub). Permetterà, ad esempio, di fare il check out in camera, chiedere informazioni sulla struttura (orari, prezzi, ecc.), richiedere servizi, ottenere le promozioni. Alla struttura consentirà di fare sondaggi sul gradimento e alla reception, grazie alla “modalità interprete” di Google, sarà possibile avere una traduzione simultanea da una grande quantità di lingue, permettendo una comunicazione praticamente universale.
Nel 2020 Google ha lavorato intensamente per supportare gli sviluppatori lanciando una nuova piattaforma per l’implementazione delle Google Action (applicazioni di terze parti specifiche per Google Assistant), ovvero Actions Builder: un sistema che consente di utilizzare una nuova interfaccia grafica e che implica un cambiamento anche nel modo di pensare lo sviluppo delle Actions.
Al Google Assistant Developer Day sono emerse molte novità come le nuove voci disponibili per le Google Actions (voci dalle sfumature sempre più “umane”), le novità relative alle App Actions (l’unione tra i comandi vocali e le applicazioni mobile), gli Action Links (la possibilità di avviare le applicazioni vocali attraverso dei link nei siti web, negli annunci, nelle app mobile), la presentazione della futura possibilità di promuovere le Google Actions all’interno delle app mobile, le scorciatoie, e molto altro.
Per quanto riguarda i motivi di utilizzo degli utenti, secondo Statista l’82% di chi possiede uno smart speaker ricerca informazioni: notizie, meteo, ricette, appuntamenti, offerte, ecc.; ma come già detto non è l’unico motivo: il 67% riproduce musica o video in streaming.
Il 36% li usa per chiedere supporto a un brand. La relazione “vocale” con i brand è un altro aspetto da tenere in considerazione: oggi infatti si inizia a parlare di Voice Branding ma trattandosi della mia stessa azienda non andrò avanti sul tema per non incorrere nella “marketta”.
Il 35% dei rispondenti utilizza poi gli smart speaker per acquistare prodotti.
Amazon sta spingendo sull’integrazione tra il suo servizio di grocery delivery, AmazonFresh, e Alexa. Quest’ultima impara a conoscere i gusti dell’utilizzatore rendendo l’attività del fare la spesa più veloce e semplice man mano che la si utilizza.
Honda ha stretto molte partnership con diversi retailer quali Amazon, Walmart, Target, per rendere agevoli gli acquisti vocali direttamente dall’auto. Questo perché gli americani spendono circa un’ora al giorno guidando (ma dubito che in Italia il dato sia tanto diverso).
Il 34% usa gli smart speaker per ordinare del cibo. Mi limito solo a citare il caso di McDonalds che ha acquisito la startup di voice technology Apprente con l’obiettivo di migliorare l’esperienza di ordinazione sia ai McDrive, ma soprattutto ai “McKiosk” ormai presenti in tutti i punti vendita. D’altronde fare un’ordinazione a un McKiosk richiede un minuto, farlo tramite assistente vocale anche meno.
Forse è ancora presto per parlare di “voice commerce” in senso stretto, ossia di esperienze di acquisto interamente ottimizzate per l’utilizzo vocale, ma i dati sull’adozione di questa tecnologia sono incoraggianti. Ci aspettiamo quindi che le aziende si attrezzino e non lascino tale campo ad Amazon. Ad esempio l’azienda italiana Ditano sta utilizzando la voice technology sul suo e-commerce con ottimi risultati.
E infine la voice technology può essere usata semplicemente come supporto ad attività di comunicazione. Di recente Oreo ha utilizzato Alexa per il lancio di un nuovo gusto attraverso il contest “Mystery Oreo”: un gioco a indizi (ottenibili anche attraverso Alexa) in cui chi ha indovinato il gusto ha vinto 50.000$.
Se questo argomento vi appassiona vi consiglio di seguire su LinkedIn il mio collega Alessio Pomaro che sulla Voice Technology è sempre sul pezzo e che di recente ha anche lanciato un podcast per chi vuole approcciarsi o tenersi aggiornato e persino il primo corso in Italia per chi invece vuole applicare la voice technology nel proprio business.
Podcast
Ebbene sì, la voce continuerà ad avere un ruolo da protagonista. E lo avrà anche grazie al podcast, questo formato audio strutturato a puntate che ricorda i programmi radiofonici, ma che è on demand e in queste nostre giornate caotiche lo rendono molto più comodo da fruire di un normale programma radio.
Il tipico ascoltatore di podcast è un adulto istruito tra i 25 e i 44 anni, ha un reddito medio-alto e fruisce da casa o mentre guida. Nel 65% dei casi lo fa da smartphone o tablet (25% da computer, 10% tramite assistente vocale). L’82% di chi ascolta podcast spende più di 7 ore alla settimana ad ascoltarne e chi lo fa settimanalmente ne arriva ad ascoltare in media sette diversi. Di seguito le attività più comuni che vengono svolte mentre si ascolta un podcast.
L’80% dei fruitori ascolta l’intera puntata o quasi tutta la puntata che, in media, dura 6 minuti e 37 secondi, il che la dice lunga sull’attenzione dell’utente. Se 20-40 minuti per interviste e contenuti approfonditi ma pieni di ritmo sono ancora accettabili, ma se vuoi osare e andare oltre o sei Alessandro Barbero oppure devi essere davvero bravo a tenere l’attenzione dei tuoi ascoltatori per tutto quel tempo.
Oltre il luogo e il momento della giornata, ogni utente sceglie la tematica che più gli aggrada. La scelta tendenzialmente ricade tra le seguenti: cultura e società, business, comicità, notizie e politica e salute.
Diciamo che essendovi attualmente all’attivo circa 850.000 podcast nel mondo con oltre 30 milioni di puntate, questa scelta è piuttosto ampia, ma qualche podcast da consigliarvi ce l’ho:
- Il Podcast di Alessandro Barbero: lezioni e conferenze di storia (Storia – Spotify);
- MARKETERs Live (Marketing – Spotify);
- Daily Cogito (Filosofia – Spotify): condotto da Rick DuFer che rende la filosofia digeribile per chiunque trattando temi o autori filosofici attraverso “casi” concreti (tra cui segnalo le puntate dedicate al Signore degli Anelli);
- 2024 (Innovazione – Spotify), il podcast ufficiale di Radio24 che tratta temi legati al business e all’innovazione;
- Breaking Italy Podcast (Interviste – Spotify);
- Mortebianca (Filosofia e Curiosità – YouTube): oltre alla sua playlist-corso di filosofia, questa macchina da guerra del podcast propone serie di audio sulla filosofia di film, anime o videogiochi celebri. Se non siete in grado di seguire chi parla veloce, vi consiglio di ascoltarlo impostando la velocità di riproduzione a 0,75;
- Smart City (Innovazione – Sito web o Apple podcast): altro podcast di Radio24 a cui non potrei rinunciare: tratta più marcatamente di innovazione tecnologica;
- Domande al nutrizionista (Salute – YouTube): se volete davvero capire le leggi dell’alimentazione e non avete paura a dover iniziare a guardare il cibo con occhi diversi, questo è il podcast che fa per voi.
- The Strategy of Why (Comunicazione e Design – Spotify): riflessioni dal mondo del design e della comunicazione.
Avrete notato che non seguo con assiduità podcast di brand (a parte Radio24 che però si occupa per sua stessa natura di informazione). Eppure, anche se più lentamente rispetto ai podcaster indipendenti, i brand stanno facendo il loro ingresso nell’arena proponendo contenuti più o meno impegnati, ma di certo in grado di catturare la risorsa più scarsa e più di valore oggigiorno nel marketing: l’attenzione degli utenti.
Tutto questo allo scopo di:
- ingaggiare e fidelizzare maggiormente il proprio pubblico;
- aumentare l’autorevolezza e la credibilità del brand;
- migliorare la visibilità e “condivisibilità” dei suoi contenuti;
- favorire collaborazioni con altri brand o con influencer.
Innumerevoli brand hanno già aggiunto i podcast al loro communication mix, tra cui: McDonald’s, Sephora, eBay, Microsoft, Shopify, General Electric, McAfee, Mozilla Firefox, Slack.
Anche qui vale la regola per cui cavalcare un trend solo per il gusto di avere un branded podcast non ha senso. Certamente da evitare è l’approccio autoreferenziale. Agli utenti non frega nulla di ascoltare puntate su puntate su quanto sia innovativo il vostro prodotto. Il loro tempo ha valore quindi dovrete dare loro del valore.
Basecamp, azienda che sviluppa software di project management, attraverso il suo podcast Rework i suoi co-founder dispensano consigli su come condurre la propria azienda.
E attenzione: aprire un podcast aziendale non significa vedere questo canale necessariamente come un impegno duraturo da prendersi. Salvo per chi fa personal branding e allora ha più bisogno di continuità per non perdere il proprio seguito, un podcast aziendale è solo un altro modo per veicolare contenuti di valore e può essere “messo in pausa” o avere una durata ben definita. Molti dei podcast sopracitati sono attualmente in pausa, ma le puntate sono ancora ascoltabili.
Nel 2017 McDonald’s, a causa di un episodio di Rick&Morty, si ritrovò con l’inaspettata richiesta (innumerevoli petizioni online e conversazioni sui social) di una salsa ormai non più prodotta dal 1998. Decise di accontentare i suoi consumatori re-introducendola in edizione limitata. La quantità resa disponibile nei punti vendita fu però insufficiente a soddisfare la richiesta e questo generò frustrazione e persino fenomeni di vandalismo. McDonald’s decise allora di ricorrere a un podcast, The Sauce, per raccontare, con uno stile investigativo, i motivi per cui la salsa non fu disponibile.
Un mese fa è stato lanciato il podcast ufficiale del film di 007 “No Time To Die” in occasione del rinvio del film. In questo podcast vengono raccontati i dietro le quinte, interviste ai protagonisti, aneddoti e curiosità sul film.
Per quanto riguarda invece l’investimento in advertising nei podcast, questo è destinato ad aumentare. Si stima che questo mercato solo in termini pubblicitari varrà oltre il miliardo di dollari nel 2021. I formati più comuni sono i Pre-roll (un messaggio audio di 15 secondi circa, prima dell’inizio del podcast), i Mid-roll (che possono arrivare anche a 60 secondi) e gli Outro (più brevi e che fungono più da reminder) senza dimenticare la pubblicità “native”, ossia quando è il podcaster stesso a citare il brand all’interno del podcast.
Non mi dilungo ulteriormente sui podcast e vi lascio a un articolo di Rebecca Boetti a riguardo.
Chatbot
Se i podcast rispondono all’esigenza degli utenti di fruire di contenuti di valore nel momento a loro più congeniale, i chatbot stanno provando a rispondere invece a quell’enorme bisogno di feedback da parte degli utenti. Questi, infatti, esigono un rapporto diretto con l’azienda per risolvere problemi o reclami, ottenere informazioni più precise, scegliere un prodotto/servizio, fare una prenotazione, pagare una bolletta o concludere una transazione. Il tutto in tempi celeri, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.
Quest’ultimo al momento è il benefit principale dei chatbot. E diventa ancora più importante quando l’azienda ha sede e customer service in un solo Paese, ma vende in tutto il mondo.
Del resto gli utenti continuano a preferire l’interazione umana a quella con le macchine nella maggioranza dei casi. Secondo NewVoiceMedia, soltanto nell’acquisto di beni di base più del 50% dei rispondenti preferirebbe un chatbot.
E questo non per chissà quale “resistenza” al progresso tecnologico, perché si sa che ogni introduzione di una nuova tecnologia mass-market utile richiede dei tempi naturali di diffusione e accettazione, ma perché tale tecnologia non è ancora priva di difetti. E “difetti” significa “sfide” che spesso sfociano in frustrazione e brutte esperienze da parte dell’utente, come quelle individuate da uno studio di Emarketers:
Da parte delle aziende, però, l’adozione dei chatbot sta aumentando di anno in anno, del resto i vantaggi sono ben noti. I chatbot si stanno diffondendo più nel B2B che nel B2C (58% vs 42%): nella maggioranza dei casi nell’industria del software (43%), seguita da servizi professionali (8,4%), health care (6,6%); mentre il largo consumo è ancora a quota 1,9%.
Si parla di chatbot ormai da qualche anno, ma mi sento di dire che stanno diventando quasi obbligatori in certi settori. Di sicuro i consulenti sono chiamati oggi a capire quando suggerirne l’inserimento all’interno di una strategia di marketing, nonché a fornire assistenza nella fase di design, implementazione e integrazione con la strategia di advertising e con i CRM aziendali.
A ogni modo, seppure già noto come trend, non lo ritengo ancora maturo. Si prevede crescerà ancora (nel 2025 supererà il miliardo di dollari solo negli Stati Uniti) e non sarà solo una questione di fatturato, ma di user-experience che migliorerà e aumenterà la fiducia fino rendere normale anche la risoluzione di problemi tecnici o operazioni bancarie delicate tramite chatbot.
Visual Search: il regno di Pinterest e non solo
“The future of search will be about pictures rather than keywords”. A dirlo, anche se nel proprio interesse, è Ben Silbermann, CEO di Pinterest.
Eppure questa frase a effetto ci porta a domandarci se davvero la ricerca per immagini possa avere un’espansione nei prossimi anni.
Scopriamo quindi che il 62% dei millennial desidera fare ricerca per immagini più che ricerca testuale.
Ma allora voce e visual sono in competizione tra loro?
No. Rispondono semplicemente a esigenze diverse in momenti e contesti diversi.
La Visual Search risolve principalmente due dilemmi:
- “Non so esattamente cosa voglio ma lo saprò quando lo vedrò”;
- “So cosa voglio ma non so come si chiama”.
Il 24% delle ricerche su Google restituisce delle immagini e il 18% restituisce degli annunci Google Shopping (costituiti da una componente visuale e del testo descrittivo del prodotto, prezzo e varianti). Questo ci dà un primo indizio su quanto Google presti attenzione a fornire delle immagini in risposta a una ricerca e Google sappiamo bene essere molto bravo a comprendere cosa gli utenti stiano cercando.
Google Shopping, Pinterest, Amazon e Instagram hanno nelle immagini il cuore dei loro business.
Google ha cambiato profondamente Google Shopping con una rinnovata interfaccia, nuove funzionalità e la possibilità di acquistare direttamente da Google alcuni prodotti selezionati, trasformando la sezione del motore di ricerca in una vera e propria piattaforma e-commerce.
Instagram permette ormai di acquistare prodotti direttamente dai post o dalle stories, il cosiddetto “social commerce”.
Ma la visual search si spinge oltre e consiste, se intesa in senso stretto (poiché in senso lato si parla di “image search”), nel fornire un’immagine come input di ricerca (anziché delle keyword). Queste vengono elaborate dall’AI che restituisce altre immagini a esse correlate.
Per fornire gli input si può anche usare la fotocamera, utilizzando app come Google Lens o Pinterest Lens che consentono di scattare una foto per conoscere il nome di un prodotto visto per strada o per ottenere consigli su prodotti simili o nuove idee.
Google Lens può rilevare più di un miliardo di oggetti ed è stato utilizzato già oltre un miliardo di volte.
Ma è Pinterest il social network che più si presta alla visual search. Su Pinterest vengono infatti effettuate oltre 600 milioni di ricerche visuali al mese.
Più di 5.000 categorie di prodotti sono disponibili attraverso il visual search advertising, il fiore all’occhiello delle opportunità di business di Pinterest con l’8,5% di conversion rate. Infatti chi utilizza di frequente Pinterest Lens, per fare shopping userà la ricerca visuale l’80% delle volte.
Non poteva mancare alla festa Amazon che tramite il suo servizio Rekognition fornisce alle aziende una tecnologia di deep-learning per identificare oggetti, persone, testo, scenari e attività all’interno di immagini e video. Le aziende possono implementare questa tecnologia all’interno delle loro applicazioni proprietarie.
Nel 2019 ha anche lanciato StyleSnap, la feature che permette, tramite l’app di Alexa, di partire da una foto e replicare un look e quindi ricevere suggerimenti su diversi prodotti simili.
Facebook, invece, ha attualmente implementato la funzionalità di visual search all’interno del suo Marketplace, ma attendiamo nuovi sviluppi, specialmente su Instagram.
Diversi brand stanno adottando questa tecnologia per fornire nuove esperienze di navigazione (e di acquisto) ai propri utenti, tra cui: ASOS, eBay, Walmart, Farfetch, Marks and Spencer, Lush e molti altri.
TikTok e i suoi follower
Il social network made in China, fatto di prove di canto, lip sync, balletti, duetti, sfide e nonsense, con i suoi 2 miliardi di download è ormai una certezza nel panorama dei social media e ogni buon MARKETERs è bene che lo accetti. In special modo i millennial come me che sono sempre scettici quando esce una nuova piattaforma e questa diventa la preferita tra i più giovani.
Ma lo scetticismo è giusto che ci sia purché venga superato dalla curiosità, come ci insegna il buon Yotobi:
Ma i download, si sa, valgono relativamente poco nel mondo delle app se poi questa non viene utilizzata. TikTok ha ad oggi oltre 800 milioni utenti attivi mensili, di cui 100 in Europa, e ovviamente ha avuto una notevole diffusione anche grazie al lockdown. E questo in meno di tre anni dalla sua nascita. Per intenderci, Facebook ha impiegato più di quattro anni per riuscire ad avere lo stesso numero di utenti attivi mensilmente e Instagram sei anni.
Il 41% dei suoi utenti è ha tra i 16 e i 24 anni, con un’età media che sta andando via via ad alzarsi. 52 sono i minuti che in media un utente trascorre nell’app.
Molti brand hanno già compreso le potenzialità dell’essere presenti sulla piattaforma e di saperla usare correttamente. Uno dei vantaggi principali è la reach che si può ottenere anche in modo organico. Il brand di jeans Old Navy, ad esempio, ha lanciato l’hashtag #denim4all accompagnandolo con un balletto per promuovere la sua ultima linea di denim. Ad oggi l’hashtag ha ottenuto 4,4 miliardi di visualizzazioni.
@zebbyandtheoz##duet with @radhikabangia ##Denim4all♬ Doing Me – Ray BLK
Per non parlare dei tanti casi di piccole o micro aziende che si sono ritrovate a esaurire le scorte perché sono diventate (spesso inaspettatamente) virali su TikTok, come questa ragazza che vende cover per smartphone:
@kaitlynconroy_##duet with @kaitlynconroy_ everyone kept asking! @wanderlustcases ##fyp ##smallbusiness ##girlboss ##fashionedit ##HiddenGems ##NicerToMe♬ In The Name Of Love x Without Me x Jackie Chan – carneyval
Vi è inoltre un fermento di community e sub-culture all’interno di TikTok che ruotano attorno a diversi temi. Oltre a scoprirle, la difficoltà sta anche nel trovare il modo corretto per inserirvi il vostro brand (seguendo gli stessi precetti del tribal marketing validi da decenni). Un esempio è quella dei cosiddetti “organizer”, persone che ricercano modi sempre più intelligenti per organizzare i propri oggetti in casa e/o salvare spazio. Oppure il trend del “food storytelling”.
Inoltre i brand stanno imparando a ingaggiare le proprie di community, con delle content strategy che utilizzano le logiche di TikTok. A prima vista potrebbero sembrare identiche a quelle di Snapchat e di Instagram Stories, ma invece mostrano delle differenze, comprensibili solo dopo aver trascorso sulla piattaforma ore e ore di studio. Un caso interessante è quello dell’Inter:
@inter… anything can be a ⚽️! Think you can do better? Show us! ##stayathomechallenge ##inter ##women ##football @433♬ Mas Que Nada – Sergio Mendes
Su TikTok si può anche fare advertising e sono presenti diversi tipi di formati di advertising:
- il Brand Takeover e il TopView che sono visibili a tutto schermo quando l’utente accede all’app e servono più per fare awareness, dato che garantiscono una reach immensa;
- i vari tipi di In-Feed Ads (Super Like, Interactive Card, Voting Card e Display Card) che, come il nome suggerisce, si inseriscono all’interno del feed dell’utente e possono spingerlo più alla conversione o alla loyalty;
- i Branded Hashtag Challenge che servono a invitare gli utenti a generare contenuti attorno a una tematica cara al brand;
- i Branded Effect, ossia una serie di filtri, oggetti virtuali ed effetti 2D e 3D che permettono agli utenti di personalizzare i propri video interagendo con il brand.
Alcuni di questi formati, non essendo ad asta ma a prenotazione, hanno dei requisiti di budget che variano da Paese a Paese e non sono quindi accessibili alle piccole aziende. Altri invece sono acquistabili ad asta e sono più abbordabili.
Ovviamente sono disponibili decine di metriche per la misurazione dei risultati e diverse integrazioni con i principali ad server per integrare i dati a quelli delle campagne su altre piattaforme.
Come se tutto questo non bastasse, di recente è stata ufficializzata una partnership tra TikTok e Shopify che consentirà ai merchant della piattaforma per creare store online di sfruttare delle nuove funzionalità e-commerce all’interno del social.
Inoltre se volete saperne di più su TikTok e le sue logiche vi rimando all’articolo di Matteo Mazzoleni.
I numeri di TikTok hanno attirato l’attenzione dei MARKETERs ma hanno anche più che “impensierito” Trump e il governo indiano come magari avrete letto. E non solo.
I grandi del tech sono stati costretti a rivedere le funzionalità dei loro social per adeguare l’offerta alla domanda di contenuti “tiktokkiani” (passatemi il termine, non diventerà virale, ve lo assicuro).
In un primo momento Mark Zuckerberg ha deciso un po’ impulsivamente di “prendere ispirazione” anche da TikTok e ha lanciato Lasso, senza però avere successo.
Così ha deciso di fare come con Snapchat: non lanciare una nuova app ma aggiungere le delle funzionalità “tiktokkiane” a Instagram. Ne è nato Reels. I principi per usarlo lato business sono gli stessi di TikTok: zero autoreferenzialità e trovare modi per far sì che i protagonisti siano gli utenti e non il brand. D’altronde la forza di TikTok sta nella sua capacità di permettere agli utenti di esprimersi e di liberare la propria creatività nei modi più stravaganti e mediante contenuti “snackable”.
E non solo crearli ma anche fruirli. Il trend delle “stories” prosegue e dopo Snapchat, Instagram, Facebook, WhatsApp e persino YouTube, da poco anche Google Search ha le sue stories, rigorosamente solo su mobile.
In questo caso non saranno gli utenti a crearle ma i publisher (al momento circa 2.000 siti web possono utilizzarle tra cui ovviamente Forbes e Vice). Questi avranno quindi l’occasione di utilizzare dei micro-contenuti video visibili nella sezione Discovery di Google per attirare l’attenzione di potenziali lettori.
Ripartire dalla sostenibilità
Il Covid-19 ci ha fatto fermare, ha cambiato le nostre abitudini e se da un lato ci ha portati a fare un maggiore uso di prodotti non riciclabili, servizi di delivery vari con un maggior numero di imballaggi e prodotti di scarto, dall’altro lato ci ha costretti a ripensare le nostre abitudini e i nostri stili di vita, nel bene o nel male.
Secondo uno studio di Capgemini il 79% dei consumatori sta modificando le proprie preferenze di acquisto in virtù della responsabilità sociale, dell’inclusione e dell’impatto ambientale. In particolare, secondo uno studio di PwC, il 60% tra i millennial e i GenZ si dichiarano attenti al tema della sostenibilità delle materie prime e delle forniture, il 38% alle filiere corte per ridurre l’inquinamento o alla sostenibilità negli approvvigionamenti energetici.
Inoltre il 66% dei giovani in Italia preferisce prodotti di moda o bellezza di origine non animale e non testati su animali.
A influenzare le scelte di acquisto eco-friendly sono maggiormente la famiglia, gli amici e i colleghi di lavoro, seguono i media informativi, poi gli show televisivi, film e documentari e a seguire la pubblicità.
Questo trend già innescato negli anni precedenti (si pensi ai movimenti “Fridays for Future” promossi dalla nota attivista Greta Thunberg nel 2018 e nel 2019) porterà sempre più aziende a sposare queste cause e a comunicarle sempre meglio, cercando di evitare il cosiddetto “green washing”.
Non aggiungo altro sull’argomento perché vi rimando all’ottimo articolo di Veronica Compagnin “Ripartire dalla sostenibilità – Un nuovo motore per la nostra vita”.
Insomma, tanta carne al fuoco per noi MARKETERs ‒ questa era solo un’infarinatura ‒ ma si potrebbe parlare di trend ancora per molto: dell’uso della blockchain nell’advertising o nel retail, del programmatic nella TV e nel digital out of home; della sempre più presente AI nell’advertising, nell’email marketing, nella marketing automation e persino nell’influencer marketing; dell’interactive content, di… Ok, mi fermo qui, giuro.