
La fotografia è il mezzo più diretto e immediato con cui ci esprimiamo nell’epoca dei social network, ma non sempre viene data la giusta attenzione al valore estetico delle immagini che pubblichiamo. Provate a scorrere il vostro feed di Instagram: quante immagini sono davvero belle?
Cosa ci viene in mente quando accostiamo la fotografia al mondo dell’arte, dove le spetta di diritto un posto tra le muse più giovani? A quelli tra noi nati prima dell’era social probabilmente parole come album, mostra o Steve McCurry: tutti riferimenti a grandi nomi di maestri, progetti e stili che abbiamo imparato a riconoscere e ad apprezzare.
Ma se la stessa domanda viene posta ai millennial? C’è un’ottima possibilità che le risposte siano termini come Clarendon, Lark e seguire. Il responsabile di questa evoluzione semantica è, prevedibilmente, il social votato alla sola condivisione di immagini: Instagram.
Del resto è normale che sia così. Quest’app è nata nel 2010 e dopo appena due anni l’azienda è stata comprata da Facebook per un miliardo di dollari; inizialmente paradiso degli hipster grazie ai suoi filtri replica delle macchine istantanee, ad oggi conta più di 500 milioni di utenti mensili, per uno strabiliante valore commerciale stimato di almeno 30 miliardi di dollari. Si erano mai visti prima 500 milioni di fotografi? Certo che no.
La possibilità che dà Instagram a questi “fotografi” è gigantesca: chiunque sappia scattare una fotografia con il proprio cellulare può facilmente condividere le proprie foto, dopo averle modificate a proprio piacimento con una ricca galleria di filtri e regolazioni ed etichettate con gli hashtag opportuni. Ma, come sempre accade quanto uno strumento o un linguaggio vengono resi liberi e democratici per chiunque, siamo sicuri che il valore dei contenuti rimanga intatto?
La fotografia: una storia di istanti
Facciamo un passo indietro. Abbiamo imparato a conoscere la fotografia come l’arte che più facilmente sa immortalare gli istanti importanti del nostro tempo: dalle foto ingiallite del matrimonio dei nonni alle istantanee dai colori imprevedibili, fino all’estrema facilità d’uso portata dall’avvento del digitale.
C’è però una costante fondamentale in questo percorso: pochissime persone, nel momento di premere il tasto dell’otturatore, pensavano di creare un prodotto di particolare valore artistico, e pochissime potevano vantare il titolo di fotografo. E giustamente: il processo di sviluppo del negativo è un’operazione delicata e da addetti ai lavori, e il potenziale pubblico di una foto analogica, o digitale ma prima dei social network, era piuttosto ristretto.
Certo, c’erano i grandi maestri, dai paesaggisti ai fotoreporter: dai sublimi panorami di Sebastião Salgado alle storie raccontate dagli scatti di Gianni Berengo Gardin, dai grandiosi viaggi di Steve McCurry ai ritratti glamour di Helmut Newton. Tutti questi grandi nomi assurgevano alla notorietà grazie alla loro progettualità, al loro studio approfondito dello stile e della tecnica e, soprattutto, al desiderio di raccontare. La diffusione dei lavori dei grandi fotografi avveniva attraverso quotidiani, riviste e mostre, cosicché era chiaro il confine tra fotografia d’autore e fotografia pop.
Il grande punto di svolta si ha con l’avvento dei social, appunto, ma non stiamo ancora parlando di Instagram. Infatti, Ig da questo punto di vista non ha inventato niente. La possibilità di condividere immagini con la propria rete di contatti esisteva ben prima: dallo stesso Facebook al primo vero social dedicato alla fotografia: Flickr.
Come la fotografia è diventata social
Il caso di Flickr è particolarmente interessante: nato nel 2002, questo social non ha mai macinato grandi numeri, fino a subire un calo progressivo di iscrizioni e attività ed essere attualmente sull’orlo della chiusura, seguendo l’amaro destino del gruppo Yahoo! di cui fa parte dal 2005.
Il motivo dello “spegnimento” di Flickr è presto detto: il sito si presentava essenziale e lineare, e la condivisione di fotografie era ordinata e regolata da un buon ordine tecnico e filologico. Ad esempio, a fianco delle fotografie comparivano i dati di scatto, ed era possibile ricercare immagini secondo criteri di colore o formato. Un social sicuramente di nicchia, dunque, molto statico e adatto a una consultazione del tutto simile a quella che avviene quando si visita una mostra fotografica.
Insomma, l’equivalente di un “mortorio” per i millennial iperconnessi e multitasking. Lo stesso Facebook, per quanto certamente più dinamico e partecipativo, non permetteva di concentrare sufficientemente l’attenzione sulla singola foto.
Instagram dunque ha avuto gioco facile nel conquistarsi uno spazio in un momento in cui i social erano già ben consolidati, ma poi anche a mantenerlo. L’avvento di altri social, su tutti Snapchat, non ha ancora intaccato il suo successo, anzi. Il social lanciato da Evan Spiegel, infatti, è riuscito a incanalare tutti quei contenuti visivi più leggeri e istantanei, brevi e concisi, lasciando spazio su Facebook e soprattutto su Instagram a immagini e video più “ragionati”. La differenza è ancor più evidente se si confrontano i contenuti che vengono pubblicati sul normale feed di Instagram rispetto a quelli trasmessi attraverso la nuova funzionalità Stories, “liberamente ispirata” a Snapchat.
La fotografia ha uno scopo
In tutto questo, però, può sorgere negli amanti della fotografia intesa nel senso più classico una domanda fondamentale: queste milioni di foto condivise quotidianamente servono a qualcosa? A voler essere puristi, diciamo subito di no.
La democratizzazione dell’arte ha il grande pregio di rendere possibile per tutti esprimere il proprio estro. Allo stesso modo, la costruzione di strumenti musicali a prezzi più bassi negli anni ‘60 ha favorito la diffusione del Rock and Roll. Ma bisogna considerare anche l’altra faccia della medaglia: con l’andare del tempo si è assistito a una sempre maggiore presenza nella musica pop di musicisti autodidatti, spesso più appariscenti e accattivanti che musicalmente dotati. Quante volte è capitato, ascoltando un disco degli anni ‘70 di pensare “A quei tempi sì che sapevano suonare!”?
È appunto questo ciò che accade con la fotografia. Con 2 miliardi di potenziali fotografi, il “rumore” di milioni di foto mal composte, banali, sovra e sotto esposte, di hashtag discutibilissimi (#skyporn? Veramente!?) rischia di coprire quelle foto che effettivamente hanno anche un loro valore estetico, perché non è vero che non ce ne siano su Instagram.
Più di tutto, però, a distorcere l’idea del valore artistico di una fotografia agli occhi del grande pubblico sono i mi piace. Quei doppi clic arrivano a chi ha pubblicato l’immagine come un premio alla cifra stilistica del contenuto, quando invece sono magari dei like da attribuire a simpatie personali, hashtag generalisti o copy furbi. E quindi via a decine di like a foto di spiagge storte, monumenti fuori centro e tramonti super saturati. Niente di male, per carità, ma la fotografia è ben altra cosa.
Foto belle prima che visibili
La tanto agognata visibilità, principio cardine del mondo social, è talmente allettante che moltissimi fotografi e riviste di fotografia sono presenti sullo stesso Instagram. Lo usano come “vetrina” per le loro opere, ben consci probabilmente della qualità in bitrate piuttosto bassa che offrono i social di casa Facebook, ma comunque desiderosi di farsi conoscere presso il grande pubblico.
Anche questo è lecito, e anzi, se può portare più persone a scoprire la fotografia di qualità, ben venga. Però non basta: se vogliamo migliorare la qualità di ciò che vediamo su Instagram, dobbiamo partire da ciò che condividiamo noi stessi. Bastano pochi semplici accorgimenti.
Innanzitutto pensare bene prima di scattare la foto: certo, non siamo più ai tempi della pellicola, però è decisamente meglio ragionare prima di scattare, un esercizio che alla lunga migliora la nostra vista fotografica.
È poi necessario disinteressarsi un po’…
… alla fama dei social: geolocalizzazione e pochi hashtag precisi e pertinenti, modifiche sobrie e non eccessive.
… e soprattutto ai mi piace: la quantità non è banalmente rilevante quanto la qualità. Se sono like di persone di cui conosciamo la sensibilità artistica, rappresenteranno sicuramente un feedback più qualificato.
Infine, un po’ di sano benchmarking: esiste una versione di Instagram “per fotografi”, molto simile ma utilizzata esclusivamente da professionisti, appassionati e designer in cerca di belle immagini stock, di nome 500px. Se si è in cerca di foto ottime, con un feed però interattivo e dinamico, questo è il social ideale: potrà apparire vagamente elitario forse, ma è innegabile che sia improntato massimamente alla qualità dei contenuti.
Concludendo, dunque, si può dire che Instagram non sarà il luogo ideale per trovare l’arte, ma è altrettanto vero che il viaggio alla scoperta della fotografia di qualità, anche d’autore, può cominciare anche da qui. Bisogna sempre tenere in mente il principio fondamentale della fotografia: l’estetica è importantissima, ma è comunque funzionale alla comunicazione di una storia, di un concetto, di un’idea.
Anche qui, dunque: content is king; è il contenuto, il senso, il perché di quell’immagine che più di tutto le darà valore, assolvendo al suo scopo più profondo, secondo quanto disse saggiamente il grande maestro Henri Cartier-Bresson:
Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso un solo momento