
A seguito delle manifestazioni e proteste che persistono da maggio ormai a livello mondiale, siamo spettatori di un’altra lotta, non più combattuta in strada, ma virtualmente: razzismo e discriminazione si sono insediati anche nelle piattaforme dei social network. Si lotta contro la totale indifferenza del colosso Facebook rispetto a tali questioni, nella speranza di una maggiore intolleranza e di una realtà virtuale meno contaminata. In che modo è possibile attaccare un’azienda come Facebook? Quasi semplice, mirando all’anello più debole: il denaro. Stop Hate For Profit è la campagna che sta facendo tremare il business di Zuckerberg.
Cosa sta succedendo?
In questo preciso momento, negli Stati Uniti e non solo, migliaia di persone scendono in strada lottando contro il razzismo e la discriminazione. Black Lives Matter: è stato così nominato il movimento attivista internazionale, in seguito all’ennesimo caso di abuso di potere da parte di poliziotti americani nei confronti di un uomo afro-americano. La morte di George Floyd è diventata l’icona di questo movimento dallo scorso 25 maggio, facendo emergere altre infinite storie analoghe che finalmente hanno trovato voce e visibilità. Parallelamente a questa manifestazione che ha ormai coinvolto le città a livello globale, stiamo assistendo ad un’altra lotta, questa volta però in forma digitale: è stata promossa la campagna ‘Stop Hate For Profit‘, che consiste in un enorme boicottaggio nei confronti di Facebook. Tale campagna proviene dalla “Sleeping Giants”, organizzazione ben nota per il proprio attivismo sui social. Ha dunque invitato gli inserzionisti di Facebook ad interrompere le spese pubblicitarie sui social network di Zuckerberg per l’intero 2020.
Perchè?
Il motivo di tale scelta è attribuibile alla totale mancanza di attivismo da parte di Facebook rispetto a contenuti di tipo razziale e discriminatorio di cui ormai la piattaforma è satura. L’esempio più evidente è stato la totale indifferenza rispetto ad alcune parole scritte da Donald Trump in merito alle manifestazioni BLM: parole contestate dalla maggior parte degli utenti, in quanto ritenute “false e d’istigazione all’odio”. Tale mancanza di posizione ha infatti scatenato una rivolta interna all’azienda, che ha portato più di 600 dipendenti a scioperare virtualmente contro il Ceo.
Al contrario, Twitter ha invece deciso di censurare, rimuovere e mettere disclaimer ai numerosi contenuti di dubbia moralità che circolano sulla piattaforma, non risparmiando neanche alcuni tweet del presidente USA, accusandolo di violazione dei propri standard “sull’esaltazione della violenza”. Ha assunto dunque un atteggiamento opposto rispetto a Facebook, che oltre ad essere stato neutrale nei confronti delle parole di Trump, è diventato con gli anni un campo minato di odio, discriminazione razziale, supremazia ‘bianca’ e via dicendo: da rete sociale volta a connettere le persone si è convertito a spazio all’interno del quale molto spesso gli utenti, mediante lo scambio di opinioni pubbliche o interne a gruppi privati, intensificano ideologie e concetti di superiorità razziale che sfogano su altri utenti, attraverso insulti e minacce di ogni genere. Il social network più utilizzato al mondo è diventato uno spazio ormai poco sicuro, che necessita di maggiore controllo, sicurezza e tutele.
Da poche adesioni ad un vero e proprio elenco
Il business di Facebook vale circa 70 miliardi di dollari ogni anno, reso possibile quasi esclusivamente dalle infinite pubblicità degli inserzionisti. La campagna Stop Hate For Profit ha dunque mirato al punto più debole di Facebook, le attività pubblicitarie, causando una vera e propria fuga di inserzionisti: la lista contenente il nome delle aziende che hanno aderito a questa iniziativa è in continuo aumento e sul sito ufficiale della campagna è possibile conoscerne l’identità: dai brand più mediocri a veri e propri colossi, come Microsoft, Ford, Adidas, Levi’s, Mozilla, Reebok, Sony e tanti altri. Il costante incremento dei brand nel prendere parte a questo movimento potrebbe diventare nel lungo periodo un vero e proprio collasso economico per Zuckerberg: di fronte alle numerose richieste dei brand che si concentrano sostanzialmente su una maggiore intransigenza rispetto ad alcuni atteggiamenti (hate speech, razzismo e altri contenuti problematici) Facebook ha già dichiarato che intraprenderà nuove politiche e decisioni rispetto a tali questioni.
La responsabilità dei social network rispetto a temi così delicati e continuamente discussi è da anni una disputa ancora priva di soluzione. È ovvio però che l’ambiente informativo quale è Internet si sia ormai insediato all’interno delle dinamiche sociali, condizionando le nostre abitudini e comportamenti. Rispetto a questo dato di fatto che attribuisce ai social network un’importanza ormai considerevole, è corretto pretendere da chi gestisce tali spazi virtuali maggiore controllo e sicurezza, affinché l’intera community possa godere di benessere?
La risposta è indubbiamente soggettiva, ma in un’ottica generale, essendo questa un’enorme campagna di boicottaggio nei confronti del colosso virtuale per eccellenza, ci è possibile confermare che stiamo assistendo al primo passo di un cambiamento radicale che potrebbe condurre ad una realtà virtuale (e non solo) meno contaminata e più libera.
Da quello che ho capito leggendo l’articolo, vogliono obbligare Facebook ad appoggiare la loro causa.
“O fai attivismo insieme a noi, oppure ti facciamo chiudere”? Questi “buoni” non vanno di certo accostati alla parola “correttezza”.
Voglio dire, non volersi sbilanciare non è una colpa nè sinonimo di discriminazione.
Non mi risulta che la Svizzera abbia subito ripercussioni solo per la sua neutralità.
Oppure ho interpretato male io?
La neutralità e il mancato attivismo rispetto ad alcune problematiche sono scelte che possono essere condivise oppure no, e come tali rimangono prettamente soggettive. La campagna Stop Hate For Profit è volta a “denunciare” Facebook in quanto divenuto il vero e proprio fulcro virtuale da cui nascono situazioni di disagio (a sfondo razziale, ma non solo) tra gli utenti. Vista l’importanza mondiale del social, Stop Hate For Profit e tutti i brand che hanno aderito all’iniziativa sognano semplicemente un ambiente virtuale più libero e meno dannoso. Dunque no, “O fai attivismo insieme a noi, oppure ti facciamo chiudere” non è lo scopo, anzi: il fine è quello di migliorare la piattaforma Facebook. La mossa dell’annullamento delle inserzioni può risultare invadente e fastidiosa, ma probabilmente necessaria affinché vengano prese in considerazione nuove possibili riforme in tempi brevi.