
Ibrido tra dramma e documentario, l’opera di Jeff Orlowski ha catturato l’attenzione di milioni di persone in tutto il mondo. Non è la prima volta che ci troviamo tra le mani un lungometraggio in grado di sconvolgere le apparenze del mondo virtuale, dei social network e della tecnologia in generale (pensiamo a “The Great Hack”).
Questa volta però, la differenza è data dal fatto che a testimoniare contro i maggiori colossi mondiali (Facebook, Twitter, Instagram, Google, etc) sono proprio ex collaboratori, dirigenti e impiegati di tali imprese: creatori di strategie che per anni hanno contribuito a rendere la tecnologia una vera e propria arma di persuasione, ora si trovano seduti di fronte ad una telecamera ad accusare e disprezzare le stesse aziende per le quali erano assunti e dalle quali venivano pagati. Una domanda sorge spontanea: perché questo passo indietro? Forse per senso del dovere o per una questione morale, dal momento che siamo giunti ad un punto di non ritorno: secondo gli studi, solo in America il numero delle ragazze tra i 10 e i 14 anni che vengono ricoverate a causa di lesioni autoinflitte è salito del 189% rispetto ai dati di inizio secolo. Lo stesso andamento viene riscontrato anche per il tasso dei suicidi (+151%). Nel film uno psicologo identifica il motivo di questo incremento proprio nell’utilizzo (e abuso) dei social da parte dei teenager. Ma andiamo con ordine.
Di cosa parla il documentario?
L’opera si apre con un sound quasi apocalittico, che rende l’atmosfera ulteriormente lugubre. Le prime scene sono composte da brevi filmati di telegiornali o programmi televisivi americani che accusano i social media di aver creato una totale dipendenza a tutti gli utenti, permettendo loro di rifugiarsi all’interno di una vera e propria bolla che li isola dal resto del mondo. Parallelamente alle testimonianze dei numerosi collaboratori, lo spettatore vede proiettata sullo schermo anche la storia di una tipica famiglia americana che vive il “problema digitale“: figli totalmente ammaliati dagli smartphone, genitori che cercano di creare piccoli momenti intimi di famiglia (una cena ad esempio) priva della presenza della tecnologia, ma che sfocia nel fallimento. La scena vuole far percepire allo spettatore l’incapacità dei ragazzi a stare lontani dal proprio telefono anche solo per il tempo di una cena (l’adolescente rompe la scatola all’interno della quale la madre aveva riposto lo smartphone). Tutti questi passaggi sono volti a marcare la totale assuefazione per la realtà virtuale, che rende praticamente impossibile una equilibrata convivenza nella realtà di tutti i giorni.
Nella sua interezza, il documentario affronta diversi punti critici: non è solo dei teenager il problema, ma di tutti noi. Le fake news o la polarizzazione di pensiero (ad esempio quello politico), infatti, comportano gravi conseguenze all’interno della società (talvolta anche irreparabili, come omicidi). Numerose statistiche dimostrano che sono sempre meno le persone che si iscrivono a scuola guida o che instaurano relazioni affettive non virtuali, cercando dunque di evitare tutta quella serie di situazioni o emozioni che invece dovrebbero essere la base concreta di una vita reale. Di fronte a tutto questo, il film vuole far capire senza troppi veli che la responsabilità di tutto ciò è del mondo dei social e del modo in cui ormai lo viviamo.
Qual è il vero significato del documentario?
Il messaggio cruciale che però il documentario vuole trasmettere è l’idea che i grandi colossi abbiano il pieno controllo delle nostre vite, dei nostri pensieri, delle nostre abitudini, dei nostri comportamenti. In questo scenario, i tuoi dati sono fondamentali per il loro sviluppo ed incremento monetario. In che modo è possibile tutto questo? Gli ingegneri (ormai pentiti) della Silicon Valley hanno sviluppato un algoritmo (intelligenza artificiale) capace di proporre ad ogni singolo utente nel mondo determinati contenuti di suo interesse e bombardando gli utenti con un’infinità di notifiche, spot, e-mail, etc., che non possono essere ignorate. E più vengono guardate tali proposte, più l’algoritmo espone contenuti perfettamente affini alle ricerche del nostro povero utente (tu, ad esempio) creando dunque un vero e proprio circolo vizioso. Il metodo dei social network, basato sullo scrolling col dito sulle varie Home, è lo stesso delle slot machine: ogni volta che torni su, sai già che ti aspetta qualcosa di nuovo. Questa sensazione di “aspettativa” rilascia dopamina nel cervello di ognuno di noi, e questo è uno dei tanti motivi per il quale ne siamo così dipendenti. Tutto questo prende il nome di tecnologia persuasiva.
Ci avevi mai pensato?
Un esempio raccontato dal documentario riguarda il tag delle immagini: quando una persona ci tagga in una foto, ci arriva la notifica molto semplice “X ti ha taggato nella sua foto”. Ma da questa non ci viene mostrata nessuna fotografia, dunque siamo costretti a sbloccare il telefono e aprire il social. Il tutto con l’unico scopo di farci passare il maggior tempo possibile davanti allo schermo. Sono tanti i giochi di persuasione mentale che accettiamo inconsapevolmente e dei quali non potremmo più a fare a meno. Il docufilm si chiude con delle parole molto dirette di uno tra i tanti collaboratori pentiti, che racchiudono la speranza che almeno qualche spettatore capisca la gravità della situazione e decida dunque di eliminare i social network dal proprio smartphone e quindi dalla vita reale. Ma chi di noi riuscirebbe, ad oggi, a vivere senza queste piattaforme? In un’epoca basata su tecnologia e comunicazione, siamo costantemente connessi e molto spesso ci troviamo costretti ad avere almeno un profilo social per motivi lavorativi e professionali.
Commenti e critiche: tu da che parte stai?
Tra i vari commenti e critiche rispetto a “The social dilemma”, tre sono i pensieri più condivisi. C’è chi lo ha definito distopico, ascoltando le parole degli ex collaboratori delle aziende come verità assoluta. Troviamo poi chi lo ha trovato esagerato, vedendo quindi la nostra realtà enfatizzata e romanzata, convinti del fatto che un social network non possa raggiungere certi livelli di persuasione del nostro andamento sociale. E per ultimi, troviamo coloro che sostengono che l’intero film poggi su un letto di ipocrisia, proprio perché a sponsorizzarlo e a renderlo visibile è la piattaforma Netflix, la prima ad utilizzare questi nudge con il solo fine di attirare il maggior numero possibile di utenti.
Ognuno di noi, conclusa la visione del film, si è chiesto quale fosse la verità e se fosse necessario iniziare a preoccuparsi. È chiaro che il documentario “rivela” delle evidenze che nel corso di questi anni ci sono giunte alle orecchie, forse per vie traverse, ma delle quali chi più, chi meno, era a conoscenza. Ad oggi troviamo testimonianze di chi ha creato e vissuto in prima persona questi meccanismi, lanciando un grido di allarme diretto e potente. È giusto ascoltare queste voci e molto probabilmente, di fronte ad attacchi così mirati, è giusto difendersi con un’educazione digitale concreta ed efficace. Il modo in cui scegliamo di vivere ciascuna situazione può essere così significativo da condizionarle e modificare quindi la nostra esperienza. Se il mondo virtuale ad oggi è diventato così tossico, forse è necessario prenderne atto e comportarsi dunque di conseguenza, adottando un atteggiamento più consapevole e orientato.