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UX Writing tra parole e numeri: scrivere basandosi sui dati

Troppo spesso pensiamo che la scrittura sia il risultato di un processo creativo di baudelairiana memoria. In realtà, scrivere è molto più di questo. La scrittura è «progetto, scienza, costruzione» per usare le parole di Dacia Maraini in Amata Scrittura e «non ha niente a che vedere con la natura, ma semmai con la sapienza e la professionalità».

John Saito, UX Writer di Dropbox, ama descrivere il suo lavoro come quello di colui che designs words. Ecco, credo che il verbo inglese to design renda molto bene l’idea di scrittura che un UX Writer dovrebbe avere in mente. Se diamo un’occhiata all’Oxford English Dictionary, vediamo che il verbo inglese viene definito come «to do or plan (something) with a specific purpose in mind». Non solo. Il termine viene fatto risalire al latino dēsigno, che può significare diverse cose, come delimitare, rappresentare, indicare, organizzare.

Lungi da me fare un’analisi sull’evoluzione della lingua, per cui non sono la persona più indicata, vorrei però soffermarmi su un dettaglio talmente evidente da dover esser preso in considerazione. Il verbo inglese to design, così come il suo antenato, è insieme fare e progettare e fa riferimento sia alla sfera del presente che del futuro.

È per questo che mi piace l’espressione design words, soprattutto quando si parla di UX Writing. Indica chiaramente come lo scrivere nasca da qualcosa di più complesso del libero fluire della creatività senza regole, legata romanticamente alla figura del genio. Lo scrittore, il copywriter e l’UX Writer sanno benissimo che la scrittura è fatta anche di notti insonni passate a scrivere e riscrivere un testo per farlo quadrare. Chi lavora con le parole sa benissimo che se la prima bozza può essere scritta con il cuore, l’editing deve essere fatto con la testa. La scrittura ha in sé un’anima scientifica, progettuale.

E questo è ancora più vero quando si scrivono i testi per le interfacce. Nel mio primo articolo dedicato al mondo dell’UX Writing ho già spiegato quanto sia importante per un copywriter lavorare all’user experience insieme a designer e sviluppatori. Non basta infatti saper scrivere, non basta saperlo fare bene. Un UX Writer deve anche avere una buona conoscenza di cos’è e di come funziona la progettazione dell’esperienza utente. E, anche se è fondamentale il lavoro di squadra tra le diverse professionalità coinvolte nel progetto, nel momento in cui bisogna trovare le parole giuste per una call to action, un bottone o il menù di navigazione, è compito dell’UX Writer trovare quelle più “usabili”.

Ma cosa significa dire che le parole dovrebbero essere usabili?

Non accade tutti i giorni di sentir parlare di parole usabili, molto spesso sono i siti web, le piattaforme e-commerce o le applicazioni a essere definite tali. Per Yvonne Bindi, architetto dell’informazione ed esperta di linguaggio e comunicazione, l’usabilità è «la misura della qualità dell’interazione tra utente e prodotto». Dipende dai contesti nei quali viene usata ed è legata alla personalità, alle necessità e alle competenze degli utenti. E sì, esiste anche per le parole. Nel momento in cui utilizziamo determinati termini all’interno di un preciso contesto e con uno scopo ben definito, allora quelle parole possono essere più o meno semplici da usare e, dunque, più o meno usabili.

Se è vero che l’aspetto grafico di un’interfaccia è fondamentale, è altrettanto vero che le parole hanno il potere di rendere l’esperienza dell’utente bellissima o tremenda. Hanno l’importante compito di dare alle persone quel motivo in più per acquistare sul nostro e-commerce oppure per non farlo tornare mai più. Per questo, spetta all’UX Writer assicurarsi che ogni parola abbia senso all’interno del contesto in cui è inserita. E con questo intendo l’essere certi di una «corrispondenza fra il mondo reale e il sistema», citando la seconda delle euristiche di Jakob Nielsen sull’usabilità.

Uno dei padri del Nielsen Norman Group, la più importante società di consulenza americana sulla user experience e web usability, afferma infatti che il sistema deve parlare il linguaggio dell’utente. E lo deve fare con parole, frasi e concetti che gli sono familiari. Le informazioni, inoltre, devono essere presentate secondo un ordine logico e naturale, piuttosto che utilizzare dei termini orientati al sistema stesso. Per far questo è fondamentale garantire l’associazione tra oggetti e informazioni, scoprendo qual è il modello mentale più vicino a quello dell’utente e fornire così l’informazione che gli è più utile in base al contesto e alle necessità.

Ma come è possibile capire se stiamo utilizzando le parole giuste? Oltre all’istinto, un modo è quello di aiutarsi con i dati che sempre di più abbiamo a disposizione. Già, direte voi, ma come?

Un approccio umanistico ai dati

È ormai riconosciuto anche a livello mainstream che i dati sono uno dei pilastri su cui poggia la nostra società. Alzi la mano chi non ha sentito parlare almeno una volta di Big Data o Data Analysis! Solo che non si tratta di numeri astratti e lontani da noi, ma di informazioni con cui abbiamo a che fare quotidianamente e con cui stiamo imparando a relazionarci. Sono un modo per rappresentare le nostre vite interconnesse e, per questo, sono ricchi di sfumature così come ne sono le nostre esistenze, le nostre scelte, le nostre inclinazioni.

In altre parole, i dati sono profondamente umani. Così come lo siamo noi.

Giorgia Lupi, information designer e artista italiana di stanza a New York per Accurat, società di data analysis e data design di cui è co-fondatrice, promuove un “approccio umanistico ai dati”. Nel suo Data Humanism Manifesto, scrive orgogliosamente:

 

[…]I believe we should see this moment as an opportunity to jumpstart a new renaissance, where we can question the impersonality of a merely technical approach to data, where we are ready to reconnect numbers to what they really stand for: which are more and more our lives.

A revolution that I like to call “DATA HUMANISM”, where data is really for everybody, and unique to anyone.

 

Queste parole sono riferite al lavoro di data visualization e design che la Lupi porta avanti quotidianamente, ma io credo che possano essere utilizzate per descrivere anche un più generico approccio ai dati. Nel caso dell’UX Writing, ad esempio, i numeri possono aiutarci a scegliere la parola giusta per una call to action oppure a pensare in maniera più obiettiva e distaccata al micro-copy che stiamo scrivendo.

Tuttavia, proprio perché legati inscindibilmente a noi esseri umani, i dati non sono perfetti. Per questo non dobbiamo affidarci ciecamente a loro, ma utilizzarli come valido alleato della creatività. 

I ferri del mestiere

Tenendo ben a mente quanto detto fin ora, passiamo ai diversi strumenti che possono aiutarci nell’impresa:


1. Google Trends

Ormai conosciuto ai più, Google Trends è uno strumento che permette di conoscere la frequenza di ricerca sul web di una determinata parola o frase. Può tornarci molto utile, quando siamo indecisi tra diversi termini o non siamo sicuri su quale sia l’espressione da utilizzare.

Un esempio? Quello di John Saito, che si è trovato a dover svolgere del labor limae sui testi dell’interfaccia di Dropbox. La piattaforma usava infatti termini differenti per far riferimento alle versioni precedenti di un file: previous version, view file history, version history. Con l’obiettivo di eliminare l’ambiguità e sceglierne uno solo, Saito e il suo team si sono affidati a Google Trends.

ux writing dropbox dati

I dati hanno mostrato molto chiaramente la preferenza degli utenti per version history, che è stata utilizzata in maniera univoca su tutta l’interfaccia.  

google trends ux writing data-driven dati

 

2. Google Ngram Viewer

Strumento un po’ più di nicchia, Google Ngram Viewer permette di scoprire con quale frequenza una parola o più parole connesse tra loro compaiono all’interno degli oltre 5 milioni di libri pubblicati nell’arco di 200 anni e presenti su Google Books. Le opere prese in considerazione sono quelle in inglese, cinese, francese, russo, tedesco e spagnolo. L’italiano, purtroppo, non è ancora stato aggiunto.

Per ogni ricerca si ottiene un grafico che mostra la frequenza con cui una determinata espressione è presente nelle opere pubblicate in un particolare anno. Questo strumento può essere utilizzato per capire qual è l’espressione maggiormente usata in una determinata lingua. Anche qui John Saito e il lavoro del suo team ci viene in aiuto per l’esempio.

Saito racconta di un nuovo signature tool inserito all’interno dell’app iOS di Dropbox, in cui, per invitare l’utente a inserire la firma, sullo schermo compaiono le parole sign your signature. In inglese, l’espressione suona abbastanza buffa, ma questo non è un motivo sufficiente per cambiarla in sign your name. Quale miglior modo per verificare se le impressioni avevano effettivamente un fondamento? Con i dati, ovviamente.

ux writing google ngram viewer dati

Inserendo su Google Ngram Viewer i due termini, appare infatti evidente lo scarso utilizzo di sign your signature in favore di sign your name.

 

3. Test di leggibilità

I test di leggibilità o, per dirla all’inglese, i readability test, vengono utilizzati per valutare la leggibilità di un testo, solitamente contando sillabe, parole e frasi. Il risultato è un punteggio basato su caratteristiche come la lunghezza della parola media (utilizzata come metrica per la difficoltà semantica) e la lunghezza della frase (utilizzata come metrica per la complessità sintattica).

A volte anche le parole vengono classificate per difficoltà, indipendentemente dalle sillabe (ad esempio: televisione, parola ben nota ai bambini più piccoli ma con molte sillabe). Oppure vengono dati dei suggerimenti per rendere il tutto più leggibile.

Uno dei più famosi per chi scrive in lingua inglese è Hemingway Editor, che assegna un voto a quanto scritto, conta le parole totali, lascia commenti e suggerimenti.

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Un altro è Readability-Score, che, oltre a dare un voto, riesce anche a misurare il sentiment generale del pezzo.

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4. Ricerche e sondaggi

Vecchia scuola, ma sempre efficaci. Le ricerche e i sondaggi sono ancora un valido alleato quando si tratta di capire a cosa si interessano le persone. Ad esempio, se siamo alla ricerca dell’argomento dei banner in home page e siamo un’azienda che vende latte in polvere biologico, potrebbe essere utile conoscere qualcosa in più sulla nostra audience attuale o potenziale.  

Molti strumenti di sondaggistica permettono anche di selezionare il pubblico che si vorrebbe raggiungere, così da avere dei feedback da potenziali clienti o utenti che arriveranno sul nostro e-commerce. Sono molte le piattaforme che possono tornarci utili, come SurveyMonkey oppure UserTesting.

5. Test A/B

È un test di verifica d’ipotesi, utilizzato per identificare i cambiamenti da effettuare nelle pagine web per ottimizzare un risultato o una metrica. Si confrontano due versioni di una singola variabile per testare la risposta del soggetto rispetto alla variabile A o B e determinare qual è la più efficace. Se si vogliono fare ulteriori variazioni, allora il test sarà ABC o ABCD.

Ad esempio, se volessimo aumentare il numero delle iscrizioni alla newsletter e fare un lavoro di UX Writing, potremmo cambiare le parole della call to action e vedere cosa succede.

La pagina originale (A) sarà vista solo da una parte dei visitatori, mentre l’altra con le modifiche verrà vista dall’altra metà dei visitatori. Si misura l’interazione dell’utente con ognuna delle due pagine e, dopo alcune settimane, la versione con i risultati migliori “vince”.

Perché sono importanti gli A/B test? Quando ci troviamo a preferire una parola piuttosto che un’altra, possiamo motivare la nostra scelta ricorrendo al gusto personale, al fatto che probabilmente “suona meglio”. Ma non saremo mai sicuri che quello che per noi è giusto lo sia anche per la maggior parte degli utenti fin quando non avremo dei dati oggettivi a confermarlo.   

L’UX Writing ha dunque in sé un’anima creativa e al tempo stesso progettuale. Quando ci troviamo a scegliere le parole per una landing page, una call to action o per il menù di navigazione dobbiamo tenere presente i dati possono rivelarsi dei validi alleati se ad essi ci si approccia con uno “sguardo umanistico”. Se ci si ricorda che, prima di tutto, si stanno progettando dei testi che verranno letti dalle persone e che per questo, più che persuasivi, devono essere sinceri e genuini. 


*Illustrazione in copertina di Celeste Caiello (su Instagram @mellohrin), mia cara collega e graphic designer di gran talento, che ringrazio per aver saputo racchiudere in un’immagine tutto il mio fiume di parole.

 

Sara Sollevanti

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