
Con l’innovazione e lo sviluppo dei social network si è instaurata nell’individuo una forma di alienazione verso il mondo che sta fuori al di là dell’inquadratura dello schermo e che non appartiene al mondo virtuale. Questo porta ad una costante crescita della difficoltà di socializzare e comunicare offline con altre persone, e quindi alla nascita di un bisogno interiore degli individui legato alla necessità di creare legami e relazioni.
Il ruolo dei social network
Cosa creano i social network? Legami. Grazie alle piattaforme di condivisione possiamo comunicare semplicemente collegandoci ad internet e registrandoci alla piattaforma. Vuoi parlare con un tuo amico che si trova a Rio? Accendi il telefono, avvii Whatspp, cerchi il nome e scrivi. Vuoi salutare la tua fidanzata che si trova in Canada? Apri Skype e la chiami.
Ma non solo, si possono conoscere nuove persone, rispolverare vecchie amicizie, innamorarsi. Quindi i social network, per definizione, ci permettono di creare un tessuto connesso, all’interno della società.
Le condivisioni sui media sono un’espressione sia della nostra personalità che delle nostre aspirazioni all’interno della società (Hermida, 2014).
Dal sito Web Marketing Team: “I social network sono piattaforme web che permettono una forte interazione fra gli utenti della rete, la socializzazione e lo scambio di informazioni, risorse e quant’altro”.
Morale: I social network soddisfano quel bisogno innato che l’uomo ha da sempre: relazionarsi, sentirsi apprezzati e ascoltati. Ma non tutti la pensano così.
La socialità che non crea legame
Sherry Turkle, professoressa di Studi Sociali e Scienze e Tecnologie dell’Istituto Tecnologico del Massachusetts, durante un intervento a Ted ha dichiarato che le persone si rivolgono alla tecnologia e alle piattaforme di condivisione per sentirsi connessi in un modo che possiamo agevolmente controllare.
Di fronte all’omologazione dei prodotti, sempre più uguali e indifferenziati, è aumentata la richiesta non verso nuovi prodotti, ma verso esperienze, che permettono un’interazione sociale generatrice di emozioni. I social network, puntualizza Turkle, non soddisfano un bisogno di socialità – anche se l’obiettivo di una piattaforma come WhatsApp possa sembrare proprio quello di ricostruire un tessuto connettivo di relazioni sociali tra persone che vivono nei poli opposti del mondo. I social network, invece, soddisfano il nostro bisogno di conoscere qualcuno in modo controllato, di poterlo studiare. Proprio questo aspetto però (e qui il discorso di Turkle si fa interessante) non permette la creazione di legami e relazioni. I legami, sottolinea la professoressa, si creano col contatto visivo e fisico. E, beh, col rischio dell’incontrollato.
Quando il social ci dis-connette: the Goldilocks Effect
I nostri dispositivi sono tanto potenti da cambiare non solo quello che facciamo, ma quello che siamo. Lo vediamo tutti i giorni: la gente manda messaggi o email durante le riunioni dei consigli di amministrazione, durante la passeggiata al parco, durante le cene, le feste i compleanni. Lo scenario spiegato da Turkle ci vede immersi in una spirale dove mandare messaggi o scrollare facebook, a lezione, durante le presentazioni, durante una riunione, è diventato normale, parte della quotidianità.
Turkle nel suo intervento cita l’esempio dei genitori che mandano messaggi e email a colazione e a cena, mentre i figli si lamentano di non avere abbastanza attenzione da parte loro – gli stessi figli che poi si negano a vicenda la stessa attenzione tra di loro. Mandiamo messaggi perfino ai funerali, ci estraniamo dal nostro dolore o dal fantasticare e ci tuffiamo nei nostri telefoni per viaggiare con la nostra mente in un altro posto nel mondo.
Questo effetto è stato definito da Turkle come “The Goldilocks Principle“: usiamo gli smartphone per evadere momentaneamente da ciò che abbiamo intorno. Come se avessimo la possibilità di poter bloccare le nostre emozioni e lasciarle in stand-by finché non rimettiamo lo smartphone in tasca. Non troppo vicini, non troppo lontani. Distanza controllabile. Ci stiamo abituando a vivere insieme ma soli. Continua Sherry Turkle: le persone quando si trovano in compagnia, al dialogo, preferiscono chattare con persone che si trovano in altri luoghi.
Perché ci distanziamo dagli altri attraverso i social?
Le persone ci parlano e vogliono essere ascoltate, esattamente come quando parliamo e pretendiamo lo stesso. Ma allora la domanda sorge spontanea: se davvero il nostro bisogno innato è quello di stare insieme agli altri, di ascoltare ed essere ascoltati, perché allora fuggiamo i contatti tramite i social? La risposta riporta in gioco il problema del controllo. Secondo Turkle, la gente vuole personalizzare la propria vita, vuole entrare e uscire da dove si trova quando vuole, perché la cosa che ha più importanza è il controllo: controllare dove concentrare la propria attenzione, poter decidere dove posare i propri occhi, dove essere con la mente.
Messaggiare, mandare email, postare e condividere ci consentono di presentarci sulle piattaforme esattamente come vorremmo essere visti. Ci danno il tempo di pensare, modificare, cancellare, ritoccare viso voce e carne; nella vita reale non abbiamo questa possibilità perché fuoriesce l’istinto, la bravura in pochi nanosecondi di formulare una risposta e dirla sul momento, invece che ponderarla e filtrarla. Le conversazioni filtrate, spiega la professoressa, non ci aiutano a crescere: l’errore è la base dell’evoluzione delle persone. Essere in un sistema dove l’errore si può correggere potrebbe portare, conclude, ad una regressione della società.
La sensazione che nessuno ci stia ascoltando è cruciale nelle nostre relazioni con la tecnologia. Ecco perché è così invitante avere una pagina su Facebook o un feed di Twitter: in questo modo siamo sicuri che qualcuno ci stia leggendo. Siamo sicuri che qualcuno ci stia ascoltando.
Secondo Turkle, questo bisogno di connessione costante esprime, ma non risolve, un problema di fondo. E ancora più che un sintomo, la connessione costante sta cambiando in modo in cui la gente pensa a se stessa dando forma a un nuovo modo di essere.
Ok, siamo arrivati a questo punto. Possiamo cambiare?
“Technology appeals to us most where we are most vulnerable”
Dall’analisi di Turkle, emerge un quadro abbastanza preoccupante: usiamo la tecnologia per definire noi stessi condividendo i nostri pensieri e le nostre sensazioni persino quando le stiamo provando. Il problema di questo nuovo regime di “condivido quindi sono” è che se non abbiamo una connessione non ci sentiamo noi stessi, ci sentiamo senza identità, sempre più soli.
È il momento di parlare.
La tecnologia e il mondo digital sono in via di sviluppo. Bisogna quindi creare una cultura che ci permetta di essere connessi sia online che offline.
La soluzione delinata da Turkle è quella di risevare una parte della nostre giornata al dialogo: facciamo capire alle persone che la solitudine è reale, che non connettersi per un paio d’ore della nostra vita non significa stare soli, significa apprezzare quello che di materiale e reale abbiamo intorno. Iniziamo ad ascoltarci l’un l’altro, diamo valore ad ogni cosa che ci si viene detta o data, perché se le persone parlano con noi significa che vogliono raccontarci qualcosa della loro vita, vogliono condividere un pezzettino delle loro esperienze, per questo bisogna farli sentire importanti. E come lo facciamo? Ascoltandoli.
Togheter, but not Alone.