
Vi è mai capitato di iniziare un progetto, di portarlo avanti con tutte le vostre forze e passione investendo tempo e – magari – denaro per ottenere i risultati sperati, e non raccogliere quello che avete seminato? Che siate studenti o lavoratori, tutti fronteggiamo prima o poi qualche fallimento.
Ma vi siete mai chiesti il perché? Se qualcosa è andato storto, può essere difficile scoprire le motivazioni del nostro fallimento, e così evitare di ricommetterlo. Dal Paese del Sol Levante il metodo dei 5 Whys può aiutarci a scoprire la radice dei nostri problemi.
Se errare è umano, perseverare è diabolico. Quindi, se rimboccarsi le maniche è necessario, ancora più importante è sapere dove si sbaglia. Molto di più se si tratta di gestire grandi imprese, e la responsabilità ricade su chi deve prendere le decisioni. La capacità di mettersi in discussione e di risolvere i problemi è fondamentale, ed è sempre più richiesta dalle aziende.
Nella miriade di tecniche, metodi, schemi e diagrammi che si possono usare per venire a capo dei propri problemi una delle più particolari e più usate è la tecnica dei 5 Whys di Sakichi Toyoda. Se vi chiedete chi sia – e il suo cognome non vi accende una lampadina – è il fondatore delle Toyota Industries. Un genio nel settore dell’automazione che ha creato un fondamento del problem-solving.
Come funziona? Si parte da un elenco di tutti i sintomi di una situazione. Ad esempio, potremmo chiederci il perché una campagna marketing non abbia funzionato come ci aspettavamo: è stato il poco budget? Utilizzo di tecniche sbagliate o sorpassate? Scarso appeal dell’offerta? Mancanza di confronto con i propri competitor?
Identificati i potenziali sintomi, iniziamo la nostra analisi svolgendo un processo iterativo di causa-effetto ripetendo per almeno 5 volte la domanda principale: perché? Ogni risposta ad un Why deve portarci ad un Why sul perché abbiamo dato quella stessa risposta.
Ad esempio, riguardo a un qualcosa di “banale” come una bocciatura ad un esame:
1- Perché? Perché non sapevo rispondere alle domande poste dal professore;
2- Perché? Perché non ricordavo gli argomenti trattati a lezione;
3- Perché? Perché non ho preso degli appunti soddisfacenti;
4- Perché? Perché non ho seguito le lezioni;
5- Perché? Perché scrivevo articoli sul problem-solving (sigh);
6- E così via…
Quest’analisi deve via via essere sempre più profonda e conscia dei problemi che si sono andati a creare. È una ricostruzione, è il filo d’Arianna che bisogna seguire per vedere la radice del nostro problema.
Ma non basta! I 5 Whys non bastano una sola volta: bisogna ripeterli più volte, cercando di analizzare il problema da un punto di vista differente. Ad esempio, si potrebbe studiare la situazione osservando ulteriori campi di indagine tra cui:
- Chi: perché è stato influenzato quel soggetto?
- Cosa: perché è stato influenzato quel processo?
- Quando: perché in quel momento?
- Dove: perché in quel posto?
- Come: perché in quel modo?
Attenzione! Una regola fondamentale di quest’approccio è la non colpevolezza dell’essere umano: è il processo che ti ha portato al sintomo il vero colpevole! Quindi, non è il soggetto a non aver studiato, ma il metodo che ha utilizzato a non essere sufficientemente performante o a creare effettivamente altri problemi. Se arriverete a dare la colpa al soggetto, dovrete scavare più a fondo (o con un’ottica diversa!), ponendovi altre domande e ripetendo ulteriormente il processo.
Sicuramente la tecnica dei 5 Whys non è l’unica e la più affidabile soluzione per il problem-solving, ma ci permetterà almeno di scoprire il primo livello di analisi del nostro problema. Forse arriveremo anche ad almeno una delle sue radici, e a modificare i comportamenti e i processi che lo causano.
E ricordate: “Le persone non falliscono, falliscono soltanto i processi”!