
Come cambia la domanda delle competenze con la rivoluzione industriale 4.0? Quali sono le skill assenti nelle organizzazioni, ma necessarie per competere? Questi sono temi caldi che spingono molti CEO a una profonda riflessione per non essere travolti dal cambiamento e da un’ondata di innovazioni tecnologiche.
Una rivoluzione tecnologica (e non solo)
Che i lavori cambino non è una novità, ma oggi il ciclo di vita di alcune professioni si è accorciato drasticamente, mentre le nuove tecnologie si diffondono in modo esponenziale. La tecnologia, infatti, ha modificato il mercato del lavoro: tra pochi anni alcune mansioni cambieranno notevolmente; mentre professionalità e competenze, sia ibride che nuove, hanno già spinto le aziende più smart a sfruttarne gli effetti disruption. Tutto questo rende l’ecosistema in cui viviamo estremamente complesso.
Nel futuro prossimo si accentuerà sempre più la polarizzazione del mercato lavorativo, con la contrapposizione sempre più marcata tra professioni molto qualificate e ben retribuite e lavori sempre meno richiesti e poco remunerativi.
Il tema dell’automazione è, e continuerà a essere, molto dibattuto: alcuni sostengono che l’AI stia via via sostituendo il lavoro umano, altri invece valorizzano la sua capacità di creare posti di lavoro.
Secondo il World Economic Forum, infatti, il 65% dei bambini che frequentano le scuole elementari farà un lavoro che al momento non esiste. Ne ha parlaro Stefano Lorenzi, in “Progetto Macrotrends 2017” di Harvard Business Review Italia, classificando i mestieri in “potenziali”, “possibili” e “correnti”. È curioso immaginare come tra oltre vent’anni nasceranno dei lavori, impensabili oggi, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie e imprese: il minatore e la guida spaziale, il consulente dei rapporti con i robot, il manager delle relazioni con gli hacker, ma anche l’agricoltore verticale, il digital architect, il personal brander e il broker del tempo, sono alcuni esempi.
Anche il Bureau of Labour Statistics degli Stati Uniti produce proiezioni sui lavori che andranno affermandosi da qui al 2028. Per ogni lavoro creato da Google, nasceranno molte altre professioni a cascata e si stima che i “green job”, da soli, potrebbero creare oltre 20 milioni di posti di lavoro già dal 2020. Tutto questo perché le nuove tecnologie richiederanno nuove competenze per poter essere gestite e nuove figure professionali: è comunque un cambiamento di difficile previsione, ma che va visto in termini di opportunità future.
On average, by 2020, more than a third of the desired core skill sets of most occupations will be comprised of skills that are not yet considered crucial to the job today.
World Economic Forum
Parola d’ordine: skill
Gli esperti lo definiscono “mondo orizzontale”: competenze trasversali, critical thinking, soft skill sono concetti che sentiamo spesso nominare da molti esperti. Secondo uno studio recente di Ernst & Young intitolato “I cambiamenti in atto e le nuove competenze richieste”, molte aziende faticano a reperire alcune abilità. Le competenze tecniche, infatti, non bastano e occorre sviluppare skill trasversali, o soft skill (per Richard Boyatzis sono quelle capacità che consentono di raggiungere il successo in un progetto o in un lavoro). Lo stesso studio distingue tra:
- competenze fisiche e manuali (già adeguatamente possedute);
- competenze cognitive;
- competenze sociali;
- competenze tecnologiche.
La sfida si complica quando si vogliono reperire le cosiddette competenze cognitive e sociali (o human skill): comunicazione, leadership, empatia, efficacia personale, imprenditività, spirito di iniziativa, “imparare ad imparare”, capacità di problem solving e pensiero critico. Lo stesso vale per le competenze tecnologiche e digitali, che sono tipiche non solo dei settori tecnologici come la robotica, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie, ma anche dell’Industria 4.0. Così, per poter gestire prodotti e processi innovativi, anche le persone dovranno sviluppare nuove abilità: dal social media management al data management, dal digital marketing all’IT, dall’information security al cloud computing.
Altra cosa: se oggi la matematica spaventa molti, domani sarà sempre più legata alle discipline umanistiche. Tutto dovrà quindi partire dalla formazione e dalla scuola che dovranno ovviamente formare studenti dando loro l’opportunità di interagire con il contesto digitale, come afferma Gianmario Verona, rettore dell’Università Bocconi di Milano.
E il manager del futuro? Beh, dovrà sempre più essere in grado di gestire un business in repentino mutamento, e soprattutto valorizzarlo. Tra le qualifiche trasversali che gli verranno richieste, ci saranno la mobilità e l’adattabilità, per esempio. Il manager del futuro dovrà stimolare processi di innovazione, ma anche saper coniugare l’interculturalità e l’intergenerazionalità del proprio team. Infatti, Millennial e “super-adulti” dovranno convivere all’interno dell’impresa con esigenze completamente diverse. La globalizzazione accentuerà stili di comunicazione differenti e diversità culturali comporteranno una maggiore complessità e difficoltà nella comprensione degli stili di leadership e nella gestione dei rapporti umani.
Dalle soft skill all’intelligenza emotiva
Come abbiamo visto le soft skill saranno sempre più fondamentali nel prossimo futuro e molti autori hanno già affrontato l’argomento.
David Deming, per esempio, professore della Harvard Business School, spiega quanto sia importante sviluppare le competenze soft in aggiunta a quelle di natura hard. Pensiamo alla professione del medico: l’intelligenza artificiale e la tecnologia stanno affiancando, e in parte sostituendo, l’uomo in molte attività che prima venivano svolte manualmente. La tecnologia sarà sempre più connessa a competenze hard, necessarie per gestire i macchinari e software, ma anche a competenze sociali, come la capacità di ascolto o l’empatia nei confronti dei pazienti.
Riccardo Pietrabissa, invece, docente di bioingegneria al Politecnico di Milano, cita tre “commodity” lavorative, tra cui «parlare molto bene almeno l’inglese, conoscere le nuove tecnologie e saper leggere un bilancio». In particolare, “imparare ad imparare” sarà una competenza sempre più richiesta, per la quale occorrerà ovviamente un cambio di mentalità: non basterà sapere le cose, ma occorrerà anche saper fare, saper far fare e saper comunicare quanto è stato fatto. Aspetti che non vengono sempre insegnati a scuola, ma che si imparano vivendo e attraverso le esperienze quotidiane. Ci sono poi studiosi che affermano quanto sia fondamentale saper disimparare e non focalizzarsi troppo sulle competenze possedute, per lasciar fluire la creatività.
E poi, che dire della tanto citata “intelligenza emotiva”? La capacità di riconoscere, gestire, e impiegare le proprie e altrui emozioni. Facile a dirsi, non altrettanto a farsi nonostante i numerosi libri di personal branding, ma è senz’altro una competenza utile per convivere all’interno delle attuali organizzazioni.
In ogni caso, come afferma Iacovone in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore, sarà «forte l’esigenza di “riformare” le competenze, da aggiornare almeno ogni sei mesi». Sarà un processo di continuous and lifelong learning, indotto proprio dalla rivoluzione industriale 4.0.
L’ufficio sarà ovunque
Non solo competenze: i lavoratori del futuro dovranno abituarsi a un nuovo concetto di spazio di lavoro (o Future WorkSpace), dove incrementare la propria produttività. L’ufficio sarà intelligente e flessibile; un veicolo comunicativo che faciliterà la collaborazione. Pensiamo ad aziende leader del settore digitale, come Google o Microsoft per esempio, che prestano molta attenzione al design del luogo in cui i propri collaboratori spenderanno la maggior parte della loro giornata.
We shape our buildings; thereafter they shape us.
Winston Churchill
Cambieranno le skill e cambierà la tecnologia con la quale rapportarsi. I lavoratori saranno sempre connessi e operativi e l’ufficio sarà un concetto sempre più dinamico: le persone dovranno sempre più interagire con sistemi tecnologici e strumenti di lavoro di varia natura, pensiamo ad esempio a videoconferenze, riconoscitori vocali e UI predittivi. Il tutto all’insegna della mobilità, altro tema ricorrente.
E se la tecnologia renderà tutti sempre più efficienti, quali saranno le nuove metriche con cui misurare efficienza ed efficacia del lavoro svolto? Come si affronterà l’esigenza crescente di molti lavoratori di essere disconnessi e di affermare il proprio diritto alla privacy, dice Christine Congdon, Director of Research Communication presso Steelcase?
Cambiano le risorse umane…
Cambieranno la tecnologia e le competenze; cambierà l’ufficio, ma soprattutto cambierà la cultura del lavoro. La tecnologia, l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione permetteranno di passare dalle competenze più meccaniche a quelle creative e innovative. Le metriche attuali dovranno essere modificate, passando dai cosiddetti KPI ai KBI (Key Behavioural Indicator). Questi ultimi dovranno misurare capacità più soft come la collaborazione, la creatività, la comunicazione e il problem solving, ma anche la result orientation. In più, la nuova forza lavoro dovrà, come anticipato, saper colloquiare con le macchine.
Ecco, quindi, che gli esperti parlano di reskilling, deskilling e upskilling. Ma cosa significano esattamente?
- Reskilling: si tratta della capacità di rivedere le proprie competenze e sapersi ri-posizionare in base ai cambiamenti circostanti. Il reskilling si fonda su un continuo auto apprendimento e sulla capacità di mixare le proprie competenze.
- Deskilling: spesso saper disimparare è un’abilità molto più preziosa del saper imparare. Vuol dire non lasciarsi ingabbiare da pratiche consolidate, ma saper costruire competenze nuove, in base anche alle innovazioni tecnologiche che, come sappiamo, richiedono conoscenze e competenze nuove e diversificate.
- Upskilling: in altre parole, potenziamento e augmentation delle competenze. Si tratta di un percorso teso ad accrescere le competenze e a formare i leader del domani.
… E servono investimenti in capitale umano
Prepararsi al cambiamento non è per niente facile. Il legame tra tecnologia e impresa sarà pressoché indissolubile e chiederà alle aziende notevoli investimenti dal punto di vista del capitale umano. Allo stesso modo, le competenze possedute oggi dai lavoratori non sono più sufficienti. Bisogna infatti superare le molte rigidità di questo mercato, attraverso la creazione di una skill base che permetta di competere con altri paesi, in un mondo globale.
Insomma, come dice Cristina Favini, Manager of Design di Logotel, non basta saper eseguire i compiti: servono persone in grado di comprendere il senso di ciò che fanno, di progettarlo, interpretarlo e portarlo avanti con convinzione e sacrificio. Di fronte alla grande incertezza, un dato è sicuro. Le competenze saranno sempre più human-centered. Allenare e lasciar fluire la propria creatività, ma anche adattarsi all’ambiente saranno skill utili per non farsi rimpiazzare dalle macchine, che ancora non sono dotate di alcuni aspetti fondamentali: la coscienza e la creatività.
Saper quindi definire con certezza quali saranno i mestieri del futuro e quali le competenze richieste dal mercato del lavoro diventa impossibile. Finché l’ondata tecnologica avanzerà, questo ciclo virtuoso verrà alimentato continuamente dalle stesse innovazioni e non potremo far altro che adattarci ai suoi continui cambiamenti. E accettare il fatto che il nome della nostra professione potrebbe cambiare con le nostre skill.