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Non solo copywriting: intervista a Davide Bertozzi

da 11 Dicembre 2017Dicembre 16th, 2017Un commento

Al Social Media Strategies di Rimini – evento formativo di Search On Media Group dedicato ai professionisti del Social Media Marketing e che ha chiuso la sua 5° edizione con più di 1200 partecipanti – abbiamo conosciuto Davide Bertozzi, che, grazie al suo intervento La scrittura pubblicitaria ai tempi di Twitter, è ben presto diventato uno dei top speaker delle due giornate di formazione all’insegna del social media marketing.

Laureato in Scienze della comunicazione, Davide ha imparato a progettare le parole molto presto, ma non ha dimenticato che, per un buon lavoro creativo, queste vanno sempre pensate all’interno di una strategia. Ha iniziato a studiare subito dopo essersi laureato, perché in quel momento ha capito che la formazione continua è ciò che garantisce un buon lavoro.

Oggi si diverte tra il lettering design e la MotoGP, mentre cerca di concludere il suo romanzo (che aspettiamo di trovare nella sua capsula del tempo).

 

Ciao Davide, parlaci un po’ di te. Come è nato il Davide Bertozzi che conosciamo oggi? Quali sono state le esperienze e gli incontri che più ti hanno fatto crescere professionalmente?

Mi ritengo molto fortunato, in tutto. Dal lato professionale, già dall’università ho incontrato persone speciali con le quali ho affrontato l’ingresso nel mondo pubblicitario. Ma ho avuto anche docenti incredibili, persone che non si limitano ad insegnare una materia ma cercano piuttosto di insegnare un mestiere, e la differenza non è affatto scontata.

La stessa fortuna l’ho incontrata anche nelle agenzie pubblicitarie in cui ho lavorato. Non ho mai avuto il capo-boss-megadirettore, ma ho sempre incontrato titolari capaci e pazienti che mi hanno insegnato il loro metodo di lavoro e raccontato un’infinità di storie su font, pixel e colori. Dal bellissimo rapporto personale sono nate tante micro-esperienze di vita che hanno certamente influito sulla persona che sono oggi e sul modo in cui affronto le sfide quotidiane.

Inoltre, nei primi anni da copywriter mi sono occupato unicamente di media cartacei, e questa esperienza è stata decisiva. Chi lavora nel web dovrebbe dedicare parte del suo tempo e dei suoi studi alla stampa, non solo per ampliare il proprio sapere ma per poter ottenere una visione completa di un progetto. Lavorare sia con la stampa che con il web mi ha permesso di capire che questi due mondi non sono affatto separati, anzi, dalla loro relazione possono nascere cose creative e meravigliose.

 

This MARKETERs Life nasce da un’idea di alcuni studenti. Che ruolo ha svolto la formazione universitaria nel tuo percorso?

Questa domanda mi fa venire in mente le parole che un professore universitario mi disse il giorno della mia laurea, subito dopo la proclamazione. Con il suo fare un po’ freddo ma consapevole, quel fare di chi soppesa con attenzione ogni parola, mi disse: “Bravo Davide, ora sei pronto per iniziare a studiare”. All’epoca, quasi 8 anni fa, pensai fosse una battuta, ma oggi mi rendo conto che era una drammatica verità. Dal giorno della mia laurea non ho mai smesso di studiare, certo, niente più esami, per fortuna, ma per lavorare bene bisogna studiare tanto, e sempre. In questo, la formazione universitaria gioca un ruolo fondamentale perché permette di acquisire i due super-poteri dei pubblicitari: il metodo e la visione. Per metodo intendo il modo di lavorare, studiare e persino sbagliare (sbagliando si impara, giusto?); la visione, invece, è una visione d’insieme delle cose, un riuscire ad elevarsi per osservare un progetto da alte prospettive, e capire meglio contesti, problemi e soluzioni.

A farla breve, la formazione universitaria mi ha aiutato a capire e affrontare l’aumento irreversibile della complessità sociale e professionale.

 

Ti sei presentato al Social Media Strategies come un copywriter, ma ti definisci infatti anche un creative director. Come riesci a conciliare queste due anime?

Mi piace dire che la direzione creativa è un effetto collaterale dell’attività da copywriter. Il processo è iniziato a causa della disorganizzazione di alcune agenzie pubblicitarie con le quali ho collaborato, dove mi sono trovato a dover ricoprire questo secondo ruolo perché, semplicemente, nessuno lo ricopriva. Nella maggior parte delle aziende che ho incontrato ci sono bravissimi art director, web designer epici e fotografi incredibili, ma non ci sono direttori creativi. Questo ruolo viene spesso improvvisato da uno di questi appena citati o, altre volte, da chi occupa la poltrona più importante nella scala gerarchica dell’agenzia, figura che spesso si affida più al cronometro che alla guida creativa di un progetto. A me lavorare con il cronometro non piace, e penso che non sia utile né per l’agenzia né per il cliente, quindi, con un po’ di saccenteria e tanto impegno ho iniziato ad affrontare piccoli progetti pubblicitari con un metodo vero, creando concept di comunicazione e dirigendo ogni fase del progetto creativo. Inizialmente ho commesso qualche errore di inesperienza, sì, ma la visione di cui prima parlavo mi ha permesso di affrontare ogni sfida nel modo giusto.

Quando lavoro odio sentirmi dire dall’art director “allora tu pensa alla frase così in base a quella scelgo l’immagine”, e anche l’opposta “io scelgo l’immagine e tu ci abbini una frase”. Ecco, quando nel team ci si pone queste domande, significa che non c’è direzione creativa, che non c’è l’idea e che si lavora sempre un po’ a naso.

Spulciando il tuo portfolio abbiamo visto che ti occupi molto anche di lettering design, cosa ti spinge a farlo?

È una cosa che mi diverte da matti. Non ho studiato nulla o quasi a riguardo, ma mi piace da morire. Giocare con immagini e parole è innanzitutto un esercizio di sintesi, e questa per un copywriter è di vitale importanza, ma soprattutto, sviluppare progetti di lettering design è anche un modo per tenere in allenamento la creatività. Alcuni lavori sono diventati loghi, altri si sono trasformati in headline pubblicitarie, altri ancora sono rimasti disegni e basta. Ad ogni modo, ognuno di questi dimostra come immagini e parole non siano affatto due mondi separati ma sono, al contrario, la stessa identica cosa.

Ecco alcuni esempi:

iron-man-lettering serial-killer-lettering

Qual è il più bel progetto a cui hai lavorato (quando ti sei proprio divertito)?

I progetti più entusiasmanti sono quelli che mi hanno portato all’interno della MotoGP. Tra i tanti (per fortuna), cito la recente collaborazione con il pilota Enea Bastianini. In passato ho lavorato per altri piloti del motomondiale e anche per il Misano World Circuit, che dista poco più di un chilometro da casa mia; ma con Enea mi sono divertito di più, molto di più: grazie a lui e al suo staff ho avuto la possibilità di collaborare con sponsor del calibro di Estrella Galicia, Monster e Alpinestars, e proprio pochi mesi fa ho seguito tutte le fasi di realizzazione di un “casco speciale”, dall’idea al disegno, dalla presentazione al momento in cui viene indossato (cose che, per un amante di questo sport, sono troppo fichissime). Occuparsi della sua comunicazione è per me un onore e un divertimento, ma questo non significa che sia semplice. Quando ci sono le gare in Asia, ad esempio, alle 3 del mattino devi essere davanti alla TV e non puoi tornare a letto prima dell’alba. Inoltre gli uffici stampa con cui collaboro sono spagnoli, e loro comunicano solo in spagnolo, ovviamente questo complica e rallenta il lavoro. A volte si soffre, perché in gara non si ottengono i risultati sperati (e sui social il pubblico scrive le peggio cose), ma per fortuna ogni tanto arrivano anche i successi, e in quei momenti è festa per tutti, da chi è in Italia a chi è in pista dall’altra parte del mondo. Beh, quei momenti sono speciali e gratificanti.

 

Al Social Media Strategies di Rimini hai parlato della comunicazione pubblicitaria ai tempi di Twitter. Quali sono le caratteristiche essenziali che un testo deve avere per essere efficace sul social dei 140 caratteri (anche se ormai sono 280)?

Questo social media ha messo a dura prova la nostra capacità di sintesi. Prima di estendere il testo a 280 caratteri, Twitter era una vera e propria palestra perché ci obbligava a scrivere poco e bene, cosa davvero complicata. Mi viene in mente la celebre citazione di Blaise Pasqal “Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve”. Questa frase spiega correttamente la questione. Serve molto tempo per scrivere poco e bene, e di tempo nessuno ne ha mai abbastanza. Ad ogni modo, per scrivere in modo chiaro e sintetico è necessario pensare ad un tweet come ad una campagna pubblicitaria, dove bisognerebbe dire una cosa soltanto, l’unica che fa davvero la differenza. Ti faccio un esempio: pensa ad una madre che parla del proprio figlio, direbbe “mio figlio ha gli occhi belli, i capelli belli, il naso bello e bla bla bla”, quando poi ti capita di incontrare questo ragazzo magari ti accorgi che i capelli non sono granché, e il naso pure, ma gli occhi sì, quelli sono belli. Bene, ecco su cosa devi puntare. Mi rendo conto che non è facile dirottare la questione nel nostro mestiere, ma è nostro dovere farlo. Capitano poi le occasioni in cui di cose da dire ce ne sono troppe (di solito perché il cliente le vuole dire proprio tutte), nessun problema: trattiamole una alla volta.

Tecnicamente, invece, un testo breve e chiaro solitamente è privo di negazioni e termini che finiscono in -zione, e non dovrebbe contenere parole ripiene di lettere T e Z, consonanti che bloccano il suono e creano confusione (prendi ad esempio il contratto di una banca o di una assicurazione, troverai tantissime T e Z che hanno lo scopo di non farti capire quello che stai leggendo e soprattutto firmando). Ci sarebbero un sacco di altre cosine da curare, ma il punto da cui partire è sempre la sintassi (questa sconosciuta). Più è semplice, meglio riusciamo a farci capire. Il vero problema, purtroppo, è che non tutti sanno cos’è la sintassi. Esempio triste: prova a chiedere a qualche collega se conosce la differenza tra sintassi semplice e sintassi complessa (buon divertimento).

Quindi, per rispondere alla tua domanda, il mio consiglio è di ripartire dalla grammatica, dalle basi, dalle cose semplici. Ecco che 140 caratteri diventano abbastanza.

In tal proposito mi viene in mente un brillante testo di Massimo Birattari, vero guru dell’italiano scritto, il libro in questione si chiama “È più facile scrivere bene che scrivere male”. Già il titolo la dice lunga sull’argomento.

 

Veniamo agli elenchi. Qual è l’espressione o la parola che, quando la leggi, ti fa più rabbrividire?

Ci sono espressioni comuni che proprio non sopporto più, come “siamo un’azienda innovativa”, “offriamo servizi efficaci” e “siamo leader di mercato”, le odio perché sono vuote di significato. Solitamente vengono scelte da persone che non hanno voglia di impegnarsi a scrivere qualcosa di più esauriente o, peggio ancora, da copywriter che si accontentano di ripetere frasi e concetti “fuffosi”. Quanto alle singole parole, non ce ne sono che mi fanno rabbrividire, anche se non nascondo una particolare antipatia per termini come “criticità”, “proroga” e “ottimizzazione”, termini glaciali che provengono dal burocratese stretto. Pure gli inglesismi inutili non mi vanno particolarmente a genio, l’italiano è una lingua meravigliosa, ce la invidiano persino gli inglesi, ma sempre più spesso preferiamo parlare di wine invece che di vino, di meeting al posto di incontro, eccettera eccetera. Ma le parole che più di tutte mi fanno male, male davvero, sono le parole non dette. Non lo dico per aggiungere una frase elevata, ma perché, di solito, non portano mai a nulla di buono.

 

E, invece, quella che ami di più?

Urca, qui mi metti in difficoltà, è un po’ come chiedermi di scegliere un solo libro da portare nella famosa isola deserta. Ad ogni modo… la prima parola che mi è venuta in mente quando ho letto questa domanda è stata “pastello”. Sai, è per la sua musicalità: è leggera, e la doppia elle fa scivolare la lingua dal palato ai denti in un modo che amo da morire. Un altro termine che adoro è “libellula”, anche qui, forse, è colpa delle tante elle, ma pure “frangiflutti” e “nuvola” mi piacciono parecchio. Poi ci sono le parole che amo per la loro forza evocativa, come “grano”, “nostalgia” e “tramonto”. Ma dicevo, se dovessi sceglierne una, una soltanto, forse andrei su “pastello”. Si, pastello.

 

Posso chiederti un’ultima curiosità? Cosa metteresti nella tua capsula del tempo?

Il mio romanzo. O meglio, la bozza del mio romanzo. Mi pare di averlo iniziato a scrivere cinque anni fa, ma ovviamente non l’ho mai terminato. O meglio, è quasi completo, ma andrebbe corretto, sistemato e consegnando ad un editore capace. Insomma, non sono mai riuscito a concluderlo perché ho dato la precedenza ad altre cose che ho ritenuto più importanti (vai a capire se ho fatto bene). Quindi l’idea della capsula del tempo non è male, magari qualcuno un giorno potrebbe trovare interessante la mia storia, potrebbe addirittura concluderla e guadagnarci una barca di soldi (sono un tipo ottimista).

 

Aspettiamo il tuo romanzo allora, ma continueremo a seguirti, curiosi dei tuoi prossimi progetti!

 

 

 

 

Sara Sollevanti

Un commento

  • L'Americano ha detto:

    Davide è un ottimo copywriter, ma dalla prima volta che abbiamo lavorato insieme ho capito che aveva delle doti speciali che non potevano essere chiuse in un runico ruolo.
    Spero di essere il partner/capo da cui ha imparato molto e che con la mia disorganizzazione ho portato ad un livello superiore.
    Lo aspetto in settimana per fare i conti 😉

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