
Dal marketing dell’esperienza al marketing dell’esistenza: questa è la summa del libro di Gnasso e Iabichino Existential Marketing: i consumatori comprano, gli individui scelgono. Non basta proporre un’esperienza, ma bisogna creare un set di valori coerenti in cui le persone possono rispecchiarsi, per partecipare a un vero e proprio racconto di marca.
Molti soci MARKETERs Club Torino e non solo avranno l’opportunità di assistere a un #MTalk il 20 ottobre di Paolo Iabichino, Chief Creative Officer di Ogilvy & Mather Italia, una delle maggiori agenzie pubblicitarie del nostro Paese. Per prepararvi all’incontro, abbiamo pubblicato venerdì scorso un articolo dedicato al funzionamento di un’agenzia pubblicitaria, e oggi vi proponiamo una discussione più approfondita sul libro di Iabichino.
La post-modernità e la frammentazione dell’identità
Il libro parte con una serie di capitoli descrittivi della storia del marketing degli ultimi due decenni da parte di Stefano Gnasso, docente di Sociologia dei Consumi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
È chiaro a tutti gli studenti e operatori di marketing e management che il marketing, come disciplina, va oltre al razionalismo economico, il quale non può più spiegare le scelte di consumo degli individui di oggi, che desiderano una connessione più ampia con un set di valori legati alla loro quotidianità e alla loro esistenza. Le ragioni di questo spostamento sono da attribuire alla caduta dei “grandi racconti” della modernità e all’emergere dell’era post-moderna, in cui l’identità degli individui non è più spiegata dall’appartenenza a dei gruppi sociali che fino a vent’anni fa davamo per scontati, come la famiglia e le comunità sociali.
L’identità dell’individuo post-moderno è frammentata, e questa mancanza di riferimenti può essere spiegata da una compensazione attraverso la partecipazione a quelle che il sociologo francese Michel Maffesoli chiamava “tribù”, poi ridenominate “Neotribù” da parte di Bernard Cova, professore di marketing alla Kedge Business School di Marsiglia e all’Università Bocconi di Milano.
Per il professore francese, in particolare, “Internet è il tassello mancante che permette all’individuo di interpretare e assimilare le esperienza derivate dal quotidiano”. Al senso di comunità spingono le esigenze avvertite spontaneamente dai consumatori, e le comunità possono essere collocate intorno a un prodotto o a un brand.
I consumatori, in questa fase, vivono un passaggio dal ruolo di recettori passivi di una proposta di valore di un’azienda, al ruolo di soggetti attivi nella costruzione di senso.
Internet e il Web 2.0 come risposta
Se si parla di esperienza e di esistenza, occorre calare questi concetti in un luogo dove possono essere vissute ed espresse dagli individui. Secondo Gnasso, il “Web può essere visto come marketplace dell’esperienza, dove ognuno va a prendere dei pezzi di esperienza, li trasforma in risorse per la propria vita e li scambia”.
Con la post-modernità, che crea uno sradicamento degli individui dai luoghi e dai valori cui erano legati, emerge l’esigenza di un ri-radicamento: se è vero che il postmoderno è il tempo dell’individualismo esasperato e della dissoluzione sociale, è anche vero che al suo interno si possono rintracciare tentativi di riaggregazione sociale da parte degli individui.
Le community del Web 2.0 e i social network hanno contribuito alla creazione di un nuovo spazio, ristretto, localizzato e intimo in accordo con il desiderio di comunità. Le dinamiche sociali all’interno di queste community – insieme alla constatazione dell’esistenza degli user generated content – sono molto simili a quelle tribali.
Secondo Giampaolo Fabris, sociologo di riferimento per lo studio dei comportamenti di consumo, le tribù (o neotribù) sono estremamente coinvolgenti al loro interno, poiché vi è una condivisione comune di sentimenti ed emozioni, che possono anche assumere una dimensione profonda.
Ma le community online (quali blog e forum) e i social network non sono solo finalizzati a condividere aree di interesse, ma a “condividere brani importanti della propria vita, a socializzare conoscenze, colorandole di sentimenti ed emozioni” (Fabris, Societing, 2012).
La co-creazione di valore e il racconto di marca
Da ogni luogo della realtà virtuale (che ormai è anche la realtà sociale) arrivano numerosissimi stimoli pronti a rimettere in discussione il lavoro delle imprese e le loro attività di creazione di valore.
A livello teorico è un vero e proprio cambio di paradigma: “il marketing non guarda più al prodotto o all’esperienza che ne deriva, ma si concentra sul modo in cui la merce si inserisce nel flusso relazionale dei consumatori”. In questo contesto, le aziende devono porre la loro attenzione su cosa fa il gruppo della marca e come la marca si inserisce nelle dinamiche di gruppo. Il prodotto cessa di essere un fine, e diventa un mezzo, un tramite, attraverso cui gli individui instaurano un legame con gli altri.
L’agire di consumo acquista così un senso sociale, anche se non tutti sono d’accordo sul fatto che l’acquisto sia un’attività che tenda a unire il gruppo sociale. Secondo Zygmunt Bauman, ad esempio, il consumo è l’archetipo della solitudine; Gnasso gli risponde che in realtà è la narrazione legata al bene di consumo, o meglio il racconto condiviso del gruppo, che favorisce l’instaurazione di legami tra le persone.
Ed è la narrazione legata ai brand che promette una trasformazione, e che darà una vera ritualità ai momenti di consumo, e ciò non può che allarmare quelle aziende che debbano ancora ri-pensare in ottica strategica la loro comunicazione in modo che sia coinvolgente anche per i nuovi consumatori.
Lo storytelling, quello vero
Perché proprio il racconto? Se parliamo di flusso di esperienze, raccontare è fornire una successione ordinata degli eventi passati e un particolare significato agli stessi tramite una trama: il racconto è, in altri termini, la realizzazione dell’esperienza. E come coinvolgere attraverso i racconti? Lo scambio narrativo mette in circolo le conoscenze sul reale, inducendo a interpretarle, a tramandarle. Il racconto ricuce i tessuti sociali, e rinsalda i legami tra le persone che condividono storie e tradizioni: sono le storie condivise in una cultura a mettere in relazione il singolo e la comunità.
Lo storytelling è quindi il punto di partenza di una strategia di marketing: ma non nel suo significato svuotato di cui molti addetti ai lavori si lamentano (anche lo stesso Paolo Iabichino, all’inizio del capitolo 7, promette di “ricorrere il meno possibile a questa parola”), quanto nella sua coerenza con le premesse dei capoversi qui sopra. E d’altronde ne parlavano già Pine II e Gilmore nel loro The Experience Economy (qui l’articolo dell’Harvard Business Review del 1998): la ricerca di un’espressione dell’esperienza si incentra particolarmente sulla creazione di un plot (trama), il cui punto cardine è il raggiungimento di un climax seguendo una progressione narrativa dal ritmo ascendente. Questo obiettivo si ottiene con una scelta strategica di cosa mostrare al consumatore durante la “performance” e cosa invece tenere celato per mantenere viva l’atmosfera teatrale dell’esperienza.
Secondo Fontana, Sassoon e Soranzo (nel loro libro “Marketing narrativo. Usare lo storytelling nel marketing contemporaneo”), che parlano di partecipazione e condivisione dei valori trasmessi nella narrazione, il momento di sublimazione è la trance narrativa, un processo cognitivo-affettivo attraverso cui il lettore non solo si identifica con la vicenda narrata e i suoi protagonisti, ma si immerge in quel mondo diventandone parte e rimanendogli fedele.
Attraverso la narrazione è possibile utilizzare le più disparate tecniche per conquistare l’interesse del consumatore e coinvolgerlo, grazie soprattutto alle nuove tecnologie digitali (si parla di digital storytelling): il consumatore ha una visione multilaterale che gli consente di osservare non solo le caratteristiche funzionali di un prodotto, ma anche di coglierne aspetti estetici, difetti, pregi, garanzie di inclusione sociale ed eventuali innalzamenti di status. È prendendo parte a questo racconto che il consumatore riesca a plasmare la personalità di un brand.
Seguire il consumatore, ma senza intralciarlo
Se il consumatore ha una visione multilaterale, significa che le strategie di marketing delle aziende non devono prevedere un target unico e indifferenziato. Idealmente, bisognerebbe “seguire il consumatore passo dopo passo nel corso del suo viaggio, senza però intralciarlo nei movimenti”.
Per questo è importante eliminare tutto ciò che non costituisce rilevanza ai fini della narrazione: è così che si dà autenticità alla narrazione, un’autenticità che richiama la promessa dell’esperienza trasformativa che abbiamo menzionato prima. La trama di questa narrazione è strettamente connessa alla costruzione del senso che si cela dietro il consumo, e permetterà non solo di interpretare la realtà, ma di ricercare tale senso attraverso un percorso sempre in divenire. Così, una buona trama non si esaurisce con la sola esperienza, ma prolunga la sua attività anche a posteriori, mediante processo di rielaborazione continuo e reintegrativo da parte del fruitore.
A queste dinamiche che consegue la centralità del contenuto in questa era: un “sistema passante” che rappresenta un transito da una sequenza esperienziale all’altra (evocando il concetto di società liquida di Bauman). Gnasso distingue due tipi di contenuti:
- i passanti finalizzanti: contenuti che rilanciano verso altri contenuti, e creano un sentiero di fruizione, senza però un obiettivo determinato
- i passanti finalizzati: percorsi che seguono un fil rouge, e correlano le esperienze entro un progetto narrativo più ampio.
È attraverso questa “ragnatela di contenuti” che il fruitore ha la facoltà di trasformarsi, maturando attraverso dei racconti.
Un esempio perfetto di progetto narrativo riuscito e di successo è quello legato al lancio della console Wii della Nintendo: non era basato sulle caratteristiche di prodotto, ma sulla capacità del prodotto di instaurare e rafforzare relazioni sociali. Un modo per dire che a certificare la qualità e l’unicità del prodotto e a giustificare la ragione dell’acquisto è la relazione sociale che il prodotto può creare.
In generale il consumatore, per poter instaurare una relazione di fedeltà con il brand, deve percepire l’appartenenza al sistema di valori da esso richiamato. I brand devono quindi essere sempre più relazionali, e caratterizzarsi nella produzione di storie e racconti che riprendano gli archetipi narrativi resi compatibili con le dinamiche socio-culturali attuali: in un senso quasi fiabesco, il consumatore è un eroe iper-moderno che è consapevole del proprio destino, e desidera valorizzare la propria rettitudine, i propri rapporti umani, i legami con chi gli è di fianco, ma anche con chi è venuto prima e lo sostituirà poi.
In poche parole, gli individui hanno una sola richiesta: l’indicazione del proprio “Destino”, in modo da realizzare uno stile di vita che possa fronteggiare l’ansia derivante dalla percezione di una generale mancanza di senso (tipica della post-modernità).
Ed è questa istanza sociale che la comunicazione dei brand (ma anche quella politica) deve intercettare.
I racconti di marca, alle prese con l’esistere
Invertising, il precedente saggio di Iabichino del 2009 che chiedeva “alle marche di adottare nuovi linguaggi per provare a coinvolgere un pubblico sempre più disincantato e critico”, invitava all’inversione di marcia, a non seguire più un un approccio nel fare pubblicità che mancava di credibilità, autorevolezza e affidabilità.
Il percorso socio-culturale e storico che ha portato fino a qui è stato ben delineato da Gnasso, e riassunto all’interno di questo articolo. Iabichino ci parla invece solo di creatività, e ci racconta di storie di innovazione (Philips), amicizia (Coca-Cola), trasparenza (Domino’s Pizza), talento (Samsung e la piattaforma Maestros Academy), e donne (Dove e Gucci), nonché di ambiente (Pepsi) e molte altre in cui la narrazione pubblicitaria è trasformativa.
Ma per sentire il dettaglio delle storie di Iabichino, vi invitiamo a seguire l’evento del 30 ottobre sui profili Twitter del Marketers Club e di This Marketers Life attraverso l’hashtag #MTalk, e a tornare qui pochi giorni dopo per un articolo sull’evento e i suoi contenuti.
Perché noi vogliamo continuare il fil rouge dei racconti di marca e tutto ciò che vi sta attorno insieme a voi, che amate le storie dei brand come le amiamo noi.