
Come combinare Made in Italy ed Internazionalizzazione per una formula imprenditoriale di successo? Cosa significa “Made in Italy”? Perchè molte aziende che sfruttano questo brand hanno trasferito la loro produzione all’estero? Quanto ha inciso questo paradosso sul mantenimento e sullo sviluppo di competenze chiave? E, infine: quali sono gli sviluppi attuali e futuri?
Cercheremo di rispondere a queste domande in modo esaustivo, ma (si spera) accattivante.
Back-reshoring: di cosa stiamo parlando?
A partire dagli anni ’70, assistiamo al processo di dispersione delle catene produttive a livello globale; processo che, negli anni ’80, si intensifica fino a portare alla vera e propria frammentazione geografica ed organizzativa delle catene del valore (GVCs).
È in questo contesto che si inserisce il tema dell’offshoring: le aziende trasferiscono una parte o la totalità dei propri processi produttivi al di fuori dei confini nazionali e, con essi, le competenze e le conoscenze che a questi si accompagnano.
Non cambiano solo le persone in senso stretto, ma anche le risorse che queste possono mettere in campo.
L’unicità della realtà imprenditoriale italiana ha fatto sì che il fenomeno di globalizzazione delle catene del valore non riuscisse a radicarsi in modo altrettanto forte nel Paese, ma dei cambiamenti si sono verificati ugualmente. In Italia, il termine “industria” è, da sempre, sinonimo di distretto: “un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla presenza attiva di una comunità di persone e di una popolazione di aziende in un’area naturalmente e storicamente delimitata” (Becattini).
Il distretto è il modello di business che ha garantito alle nostre aziende di espandersi a livello internazionale, nonostante i limiti dimensionali e finanziari delle piccole e medie imprese che compongono il nostro tessuto industriale. È nel distretto che nasce il Made in Italy. È qui che storia, cultura, tradizione e saper fare si fondono per dare vita a prodotti inimitabili ed unici.
Made in Italy: esperienza e cuore
La forza del Made in Italy risiede nello scambio continuo tra le persone che popolano il distretto, tra le persone e le aziende, tra le generazioni. Le realtà d’eccellenza che conosciamo oggi sono nate, una cinquantina d’anni fa, dalle mani di artigiani coraggiosi che hanno confidato nel loro saper fare e hanno tradotto il loro mestiere nella loro quotidianità. La bottega artigiana, spesso, consisteva in un piccolo scantinato dove l’artigiano passava le sue giornate dando vita a veri e propri pezzi d’arte; in quei pochi metri quadri si mescolavano passione, competenza, vena artistica e voglia instancabile di stupire. In casa si mescolavano i profumi della cucina e l’odore delle pelli da conciare, del legno o, ancora, del ferro. Il lavoro veniva svolto in casa e questo comportava che i figli venissero coinvolti fin da subito; i genitori avevano cominciato a lavorare molto presto, anche all’età di 10 anni, ed amavano quello che facevano. La passione li portava a rendere i figli partecipi della loro vita in tutte le sue declinazioni e a trasmettere loro i segreti imparati in anni e anni di attività. Trasmettere una passione, non un lavoro, significa lasciare un’eredità nello spirito e garantire lunga vita all’impresa nel tempo. Le storie di successo di oggi sono state storie di grande coraggio di ieri.
Nel distretto, si condividono valori, visioni e obiettivi. Si tramanda quel know-how radicato nel territorio e maturato nei decenni che sarebbe difficile trasferire altrove o replicare.
Tuttavia, se è vero che l’ecosistema locale favorisce il successo delle aziende che ne fanno parte, è altrettanto vero che la competitività di un’impresa non è conseguenza diretta dell’appartenenza ad un distretto. Facciamo un esempio: l’impresa X opera nel settore dell’arredamento d’interni ed appartiene al distretto del mobile in Brianza; l’impresa Y opera anch’essa nel settore dell’arredamento d’interni ed è posizionata in un’area strategicamente conveniente per vicinanza a fornitori e distributori, ma non si trova in una zona in cui è presente un distretto. Possiamo dire che Y avrà performance sempre peggiori rispetto all’impresa X, in quanto non collocata in un distretto? NO. Infatti, se è vero che l’azienda X parte avvantaggiata perché è inserita in un network, è altrettanto vero che, se non saprà rinnovarsi e affrontare le sfide in modo dinamico, sarà destinata a fallire.
Ma allora, cosa c’è alla base della competitività di un’impresa? La competitività deriva dalla capacità dell’azienda di rinnovare le proprie competenze, i servizi offerti ai clienti e le modalità di gestione dell’impresa stessa, destinando risorse ad attività e funzioni prima non cruciali o inesistenti, ma rese critiche dall’evoluzione del mercato e della domanda (ad esempio, le nuove tecnologie come stampa 3D e laser, il design e la prototipazione, i sistemi ICT ed Internet, il marketing).
Se venisse mantenuto il modello di business tradizionale, sfruttare le opportunità offerte dall’economia globale per crescere diventerebbe impossibile.
Partire per restare…
Nonostante l’indubbio vantaggio dell’appartenenza a un distretto, in molti hanno deciso di trasferirsi altrove, principalmente per motivi economici. In particolare, 3 fattori hanno condotto le aziende all’ offshoring:
- Costo del lavoro inferiore: lo stipendio medio, nei Paesi in cui è stata trasferita la produzione, è notevolmente inferiore rispetto a quello italiano; questo è dovuto sia al livello di tassazione sia al ruolo giocato dai sindacati in Italia, praticamente inesistenti in Cina e nell’Europa orientale;
- Accesso alla tecnologia locale: spostare la catena produttiva significa venire a contatto con tecnologie, spesso, più avanzate o, per lo meno, in numero maggiore rispetto a quelle disponibili nel distretto.
- Possibilità di servire mercati nuovi ed esistenti tramite produzione in loco: le aziende italiane devono internazionalizzarsi, se vogliono sopravvivere. Delocalizzare comporta il vantaggio di essere presenti fisicamente nei nuovi mercati – come quello asiatico – garantendo ai clienti prontezza di risposta e flessibilità.
La variabile di costo, tradizionalmente rilevante, è accompagnata dalla volontà di servire nel miglior modo possibile i propri clienti – ormai dispersi a livello globale – riducendo il lead time e garantendo prodotti sempre più innovativi grazie all’accesso ad un bacino di competenze del tutto nuovo.
Al di sopra di una certa soglia, però, l’offshoring rischia di deprivare le aziende di competenze critiche per lo sviluppo innovativo. Infatti, se è vero che trasferire la produzione comporta l’accesso a nuove competenze, è altrettanto vero che il nucleo aziendale finisce per disperdersi e, con esso, il patrimonio sviluppato nei decenni: l’innovazione efficace di un prodotto non può prescindere dalla conoscenza profonda del prodotto stesso e del processo che lo genera. Non si può improvvisare. L’impresa produce innovazione attraverso la sua anima: le persone. Le persone si fanno portatrici della storia dell’impresa e della sua cultura, innovano mescolando le proprie competenze e la propria unicità di uomini e donne con una storia, a loro volta, da raccontare. Allontanare l’azienda dal proprio capitale umano significa innovare per tecnica e non per spirito o passione. E il Made in Italy di cosa è fatto, se non di storia, sudore, passione e cuore?
Ma allora, possiamo dire che, per le imprese italiane, è ancora strategicamente conveniente produrre internamente? Sì, produrre conviene.
Quando l’innovazione è incorporata nel processo produttivo (come nei distretti industriali italiani), è cruciale che venga mantenuta la prossimità geografica tra gli attori della value chain e che le fasi di design e manufacturing siano integrate. Evidenze empiriche ci dicono che le imprese che controllano direttamente le proprie operations sono quelle con tasso d’innovazione più alto.
Il dibattito sull’offshoring non è, quindi, solo una questione di occupazione; prima di tutto, è un problema di dispersione delle competenze e minaccia alla capacità di innovare: la separazione tra design e produzione comporta perdita di knowledge e limita il controllo dell’impresa sul know-how; questo significa compromettere non solo la base di competenze attuale, ma anche lo sviluppo di nuova knowledge in futuro.
Il risultato è l’impoverimento del sistema impresa. La perdita di competenze operative sgretola le fondamenta della struttura aziendale compromettendone la capacità di innovare.
…e partire per tornare
Negli ultimi anni, anche a fronte di queste valutazioni, si è verificata un’inversione di tendenza: a partire dall’inizio degli anni 2000, circa 80 aziende italiane hanno deciso di tornare a produrre in Italia, dopo un’iniziale adesione al fenomeno dell’offshoring. Possiamo parlare di back-reshoring.
I due-terzi delle imprese che sono tornate in terra italiana provengono dall’Est-Europa (11.2%) e dalla Cina (60.3%).
L’Italia è il secondo reshorer al mondo, dopo gli Stati Uniti. Ma cosa ha spinto le imprese a tornare in un Paese che, come sappiamo, non promuove politiche di sviluppo, ha costi del lavoro e dell’energia più alti ed è paralizzato dalla burocrazia? La risposta risiede nel Valore: non si può proporre al mercato mondiale un prodotto Made in Italy che non racchiude, in sé, l’Italia. Con le sue contraddizioni, ma soprattutto, con la sua capacità di produrre bellezza: in termini di design, di qualità delle materie prime, di significato e di storia.
Infatti, tra le ragioni che hanno spinto gli imprenditori a fare marcia indietro, troviamo sì variabili economiche, ma, anzitutto, di valorizzazione dell’offerta:
- La riduzione del gap tra costo del lavoro in Italia e in altri Paesi (in particolare la Cina)
- L’eccessiva distanza dal mercato finale
- Lo scarso livello del controllo qualità all’estero
- Il brand “100% Made in Italy”, mai forte come oggi.
Attenzione, però! Il numero di imprese che hanno scelto di delocalizzare è ancora superiore rispetto a quello delle imprese che hanno scelto di tornare in Italia. Per sostenere il fenomeno del reshoring, sono necessari incentivi concreti da parte delle istituzioni – italiane ed europee – nella direzione dello sviluppo innovativo e della semplificazione normativa.
Per quanto riguarda i distretti, il focus deve spostarsi dalla dimensione locale all’orizzonte globale, con particolare attenzione al rinnovamento di prodotto, di processo e di tecnologia. Solo così, essi potranno acquisire competenze globali che garantiscano loro sostenibilità competitiva a livello internazionale.
La Rinascita dell’Italia può e deve partire dall’impresa italiana.
Make in Italy, Make it Better.
Cosa ne penso io?
Prima di studiare da vicino le aziende (principalmente) del Veneto, avevo l’impressione che il mito del “Made in Italy” fosse solo una costruzione del politico o imprenditore di turno che doveva riaccendere lo spirito patriottico di un popolo che aveva perso la propria identità e che aveva smesso di crederci. La nostra reputazione all’estero peggiora? La crisi continua a colpire? Le nostre imprese non sanno più come uscirne? Beh, ma il Made in Italy ce lo invidiano tutti, quindi abbiamo ancora molto, da dire!
Probabilmente si tratta solo di una mia impressione e voi, nel Made in Italy, non avete mai smesso di crederci. Beh, io avevo smesso di farlo e, ad oggi, vi dico che ho sbagliato. Perché mi sono lasciata influenzare dalle parole e non ho saputo guardare alle aziende. Qui, in Veneto, possiamo ritenerci fortunati: basta salire in macchina e, nel giro di mezz’ora, ci si può immergere in realtà imprenditoriali d’eccellenza.
Made in Italy significa “fatto in Italia”, significa prodotto in aziende nate sul territorio italiano e animate da persone che l’Italia la assimilano dall’aria che respirano.
Made in Italy è tradizione, è storia di un popolo che le cose le sa fare e le sa fare bene.
Made in Italy non è solo un prodotto, è significato trasmesso attraverso un prodotto.
L’azienda, allora, può farsi luogo di rinascita del territorio e di chi lo popola, insegnandoci cosa vuol dire arrivare a fine giornata consapevoli di quanto si è fatto e di quanto ancora, di meglio, si potrà fare. La Rinascita dell’impresa può essere metafora della Rinascita di un’intera comunità e di un’identità ritrovata.
Nelle persone e nel significato bisogna investire per tenere vivo un marchio che ci rispecchia e che riflette, nel mondo, la parte migliore di Noi.
E voi? Credete che l’Italia abbia ancora qualcosa da dire? Avete mai smesso di crederci?