
La Corporate Social Responsibility (Responsabilità Sociale d’Impresa) è un tema che sta diventando sempre più popolare anche tra i non addetti ai lavori. Le grandi crisi sociali e ambientali che stiamo vivendo oggi hanno portato numerose organizzazioni a intraprendere in maniera sempre più esplicita questo tipo di iniziative. Tra attivismo aziendale e polemiche, tra incremento dei fatturati e ricerche di mercato, proviamo a capire cos’è (e non è) realmente la CSR.
Oggi la sostenibilità è sulla bocca di tutti. Tra protestanti e negazionisti, il ruolo delle imprese è sicuramente fondamentale, sebbene non privo di ambiguità. Abbiamo già visto l’impatto che le attività di CSR hanno sui consumatori e come i Brand siano sempre più inclini all’attivismo e alla definizione di un Purpose chiaro e solido. Tuttavia, per i novizi di questo tema, può essere utile stabilire alcuni concetti di base per capire e interpretare meglio quest’attività che, iniziata negli anni ‘80 è diventata progressivamente una prerogativa fondamentale di grandi e piccole aziende di tutto il mondo.
N.B. Innanzitutto è bene sottolineare che qui ci stiamo muovendo nel campo dell’Etica Aziendale e che ci portiamo dietro, quindi, tutte le complessità di ordine soggettivo e filosofico del caso. Perciò facciamo tutti un bel respiro e addentriamoci nell’argomento nella maniera più chiara e concisa possibile (almeno ci si prova).
Che cos’è e da dove nasce la Corporate Social Responsibility
La prima definizione ufficiale della CSR in Europa è stata articolata nel 2001 nel Libro Verde pubblicato dalla Commissione Europea:
Integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate
Questa definizione si basava sulla Stakeholder Theory di Robert Edward Freeman e quindi rende l’azienda responsabile del suo impatto su
qualsiasi gruppo o individuo che può influire o essere influenzato dal raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione. (Freeman, 1984)
In senso lato, perciò, il termine stakeholder può abbracciare un’ampissima varietà di soggetti diversi (potenzialmente tutti) che, pur non interagendo direttamente con l’impresa, sono soggetti alle conseguenze delle decisioni aziendali e potrebbero legittimamente dire la loro in proposito.
Ci potremmo dunque chiedere, per esempio. “Ma cosa gliene frega a Tizio se io scelgo il fornitore X invece di quello Y?”. Nulla, in teoria, ma poniamo il caso che il vostro fornitore X, con base in Bolivia, impieghi come parte della sua forza lavoro dei bambini di 12 anni (in questo Paese, entro determinati vincoli, 12 anni è l’età minima di impiego, quindi il contesto è completamente legale). Mettereste ancora la mano sul fuoco sull’indifferenza di Tizio?
Questo banale esempio vi dà un’idea della complessità teorica e operativa della Stakeholder Theory, soprattutto se la confrontiamo con quella precedente: la Shareholder (o Stockholder) Theory. Il succo di questa teoria, frutto del lavoro del Nobel per l’economia Milton Friedman, era:
vi è una sola responsabilità sociale dell’impresa, e cioè quella di impiegare le proprie risorse nello sviluppo di attività finalizzate ad accrescere i profitti, ovviamente nel rispetto delle regole del gioco, vale a dire in un mercato aperto, corretto e competitivo. (Friedman, 1963)
Parafrasando impropriamente (e in maniera assolutamente riduttiva): “gli unici soggetti a cui dobbiamo dar conto sono gli azionisti, che gli altri mangino brioches.”
La definizione più recente di CSR la troviamo nel 2011, con la comunicazione n.681 della Commissione Europea che recita:
la Responsabilità Sociale delle Imprese consiste nell’impatto che esse hanno sulla società
Vediamo quindi che l’odierno profilo normativo della CSR è alquanto vago e aperto a interpretazione ma rimane il concetto, come espresso dalla ONG Business for Social Responsibility, che le imprese dovrebbero “raggiungere il successo commerciale in maniera tale da onorare i valori etici e rispettare persone, comunità, e l’ambiente”.
Al di là delle speculazioni filosofiche, non si deve commettere l’errore di pensare che la Responsabilità Sociale d’Impresa sia un approccio filantropico completamente avulso dagli affari e dal profitto.
Lo stesso Freeman si è espresso sul dibattito tra teorie Stakeholder e Shareholder, facendo notare che questi due apparentemente opposti approcci, sono in realtà molto compatibili:
Anche la sostenibilità deve essere sostenibile
C’è ben poco da fare: le aziende hanno come obiettivo principale e imprescindibile quello di fare profitto. In altre parole, devono sopravvivere. Per questo semplice, ma cruciale concetto, è inutile polemizzare sul fatto che ci siano dei benefici economici derivanti dalle politiche di CSR. Come se il guadagno viziasse indiscriminatamente qualsiasi buona azione sotto il mantra “Tanto lo fanno solo per pubblicità”
Detto questo, Il framework che si segue è quello del Professor Archie Carroll e della sua Piramide della CSR.
Seguendo l’ordine delle priorità dettate dalla piramide, vediamo che la prima sostenibilità che va presa in considerazione è quella economica per l’azienda che decide di intraprendere iniziative di CSR.
Per questo motivo si parla spesso di triple bottom line, ovvero il bilancio aziendale a livello economico, sociale e ambientale. Per garantire la prosperità dell’azienda socialmente responsabile, tutte e tre queste “linee” devono risultare positive
Prima di proseguire sarebbe bene tenere a mente qualche concetto:
- Le aziende sono attori sociali. Le loro attività hanno un impatto sulle comunità contribuendo al welfare generale e alla prosperità economica
- Le iniziative di CSR hanno un costo per l’azienda
- La CSR è un’azione volontaria
- Il fatto che queste iniziative generino profitto, non implica automaticamente malafede da parte dell’organizzazione che le intraprende
La CSR (se è fatta bene) non è una marchetta.
Vediamo allora come si può delineare la Responsabilità sociale d’impresa in maniera operativa.
Come e perché intraprendere iniziative di CSR
Esistono due fondamentali modelli di CSR: quello Responsive e quello Strategico.
Il modello della Responsive CSR segue la teoria degli Stakeholder e si focalizza sulla Corporate Citizenship. Un approccio di questo tipo è volto a mettere in atto iniziative che vanno al di là dello staccare assegni per la Onlus di turno. La linea etica permea l’intera azienda e coinvolge attivamente tanto le comunità selezionate quanto i dipendenti dell’azienda e il suo management. Inoltre, questo modello si concentra sul ridurre al minimo l’impatto negativo che deriva dall’intera value chain dell’organizzazione(dall’HR alla logistica, dagli approvvigionamenti all’R&D). Il vantaggio principale che ne deriva è il fatto che l’azienda viene riconosciuta come virtuosa e in quanto tale migliora la sua reputazione, diventando più appetibile per consumatori e investitori. Alcuni esempi del modello della Responsive CSR possono essere ritrovati in brand come Patagonia, Ben&Jerry e The Body Shop.
Il modello strategico (che segue invece un’impronta più friedmaniana) presuppone un comportamento razionale (costi-benefici) dell’organizzazione volto a massimizzare i profitti. Secondo questo approccio, dunque, la CSR è caratterizzata per una elevata selettività delle cause abbracciate e viene considerata a tutti gli effetti un vantaggio competitivo sul mercato. Ad esempio, la decisione di investire nell’innovazione delle tecnologie green contribuisce sì a salvaguardare l’ambiente, ma dà anche la possibilità all’impresa di essere un pioniere nel settore, oltre al ridurre i costi energetici (basti pensare al successo della Toyota Prius nei primi anni 2000). Inoltre, uno sforzo volontario dell’azienda a intraprendere pratiche virtuose riduce il rischio di più costose e restrittive regolamentazioni dei legislatori, rendendo più rapida e efficace l’adozione delle buone pratiche rispetto a quanto accadrebbe con l’interferenza governativa.
Può essere considerato parte di questo modello il caso di H&M che vi abbiamo presentato qualche articolo fa. La Conscious Collection, che pone l’accento sui benefici del riciclaggio e del riutilizzo degli indumenti, ha come corollario un problema che colpisce direttamente la multinazionale di Fast Fashion svedese: il fatto che ad oggi la domanda di fibre di cotone biologico supera la capacità produttiva e il recupero di prodotti tessili usati, può reintegrare in parte la scarsa disponibilità della materia prima.
Come NON si fa la CSR
Dato che sono stati condotti molti studi e redatte numerose liste sui benefici della CSR, noi troviamo più utile concludere questo “CSR 101” stilandovi un elenco degli errori più comuni che andrebbero evitati per instaurare una politica di responsabilità sociale efficace.
I 7 peccati capitali della CSR:
1) Prediligere profitti immediati rispetto all’investimento sul lungo termine – ricordiamo che la CSR non è PR e non è il video emozionale one shot. Siamo tutti d’accordo che la comunicazione sia fondamentale, ma come per qualsiasi altra cosa, alla base deve esserci la sostanza, altrimenti rimane uno sterile (e nel peggiore dei casi controproducente) specchietto per le allodole.
2) Non espandere i principi etici a tutta la value chain – è inutile che fai i pack biodegradabili se poi in produzione scaricano gli scarti chimici direttamente negli acquedotti.
3) Focalizzarsi sulla tensione tra business e società invece che sulla loro interdipendenza – il win – win è possibile, basta crederci
4) Non tenere conto dell’evoluzione degli standard sociali – bisogna monitorare, ricalibrare e tenere sempre un occhio al presente e uno al futuro
5) Assumere una posizione difensiva e negare le responsabilità – tanto te la danno lo stesso
6) Scegliere in maniera superficiale la causa da affrontare – la CSR che ha più successo è quella che si interseca al meglio con i valori aziendali e con la propria attività. Diciamo NO al soulwashing.
7)Non stabilire obiettivi precisi e risultati misurabili
Speriamo di avervi chiarito un po’ le idee. In caso contrario vi aspettiamo nei commenti per parlarne!