
Il Super Bowl LIII si è concluso, i New England Patriots hanno di nuovo trionfato, portando a casa il sesto titolo, in una delle edizioni forse più noiose di sempre. Ma in fondo si sa: la partita interessa solo i tifosi, mentre il resto del mondo attende con ansia gli spot.
Con un prezzo medio di 5 milioni di dollari per 30 secondi di spot, infatti, il Super Bowl non è solo l’evento sportivo più importante al mondo, ma storicamente il palcoscenico più importante per le pubblicità dei grandi brand. Durante la notte del Big Game, le grandi aziende mostrano a un pubblico di milioni di persone in tutto il mondo i loro messaggi e le loro produzioni di maggior valore, con l’obiettivo di vincere “la costosa gara dell’attenzione”.
Negli anni il Super Bowl ha regalato commercial che sono già nella storia della pubblicità e, specialmente di recente, è stato il palcoscenico di coraggiosi brand che hanno indicato la strada di quello che dovrebbe essere un nuovo modo di fare comunicazione. Uno stile che si adatta al mercato, ma soprattutto si adatta a un pubblico, quello dei millennials in particolare, che chiede sempre più ai brand di prendere posizione, anziché posizionare il proprio prodotto. Uno nuovo stile comunicativo, o meglio ancora un nuovo modo di stare sul mercato e nella società, che negli anni passati ha portato grandi brand come Air BnB, Toyota, Budweiser (solo per dirne alcuni) a presentarsi a un pubblico di milioni di persone durante La Notte dei commercial per eccellenza, con messaggi in cui il prodotto scompare, per fare spazio a una visione, una dichiarazione di intenti, una presa di posizione appunto.
E quest’anno?
Eppure quest’anno, analizzando i commercial andati in onda e i messaggi veicolati, non si può fare a meno di notare quella che si potrebbe definire come una vera e propria “involuzione” o un passo indietro da parte della stragrande maggioranza dei brand.
Se nel 2017, nella notte più americana di tutte, tante aziende hanno voluto comunicare di non sentirsi rappresentate dalla politica del terrore e dell’odio del Presidente Donald Trump, e nel 2018 abbiamo assistito a meraviglie come Blacture o gli inni alla mobilità di Toyota, quest’anno la media dei commercial sembra essersi terribilmente abbassata, salvo qualche raro caso.
Mentre durante l’anno aziende come Nike (che ha trovato in una figura come Colin Kaepernick il testimonial ideale per il suo messaggio) o Gillette (con il suo We Believe) hanno mostrato di aver compreso quanto sia fondamentale cercare di costruire un legame con il pubblico che vada ben oltre alla sola “attenzione” o “riconoscibilità”, durante il Super Bowl la scelta condivisa dalla maggior parte dei brand è stata invece quella di giocarsela sull’ironia.
Non che tutti gli spot di qualità debbano essere “seri”, non che sia impossibile comunicare qualcosa di valore attraverso l’ironia, ma sembra esserci un abisso nella qualità dei messaggi e degli spot veicolati quest’anno rispetto alla media degli scorsi anni, anche se qualcosa da salvare c’è eccome.
Questa volta la partita si è giocata sull’ironia semplice (e molto spesso banale), si è giocata quasi sempre sulle “gag” irriverenti in stile “Whassup?” di Budweiser, sicuramente comiche (non sempre in realtà), ma che hanno mostrato una netta presa di distanze dai possibili temi “scottanti” da parte di gran parte dei brand.
Fortunatamente qualche caso eccezionale c’è stato, primo fra tutti il Washington Post che ha portato avanti la sua “battaglia” alle fake news con il suo “Democracy Dies in Darkness”.
Così come Google che, con un messaggio di speranza prima, e uno spot per promuovere una nuova iniziativa di supporto ai veterani poi, ha decisamente lasciato da parte il “cosa facciamo”, per esprimere qualcosa di più grande e di estremo valore. Lo ha fatto ancora Toyota, supportando “Toni” Harris, l’atleta che sta per diventare la prima ragazza di college football non-kicker (l’unico ruolo ad oggi ricoperto anche da atleti di sesso femminile). Lo ha fatto Microsoft, raccontando cosa fa nel concreto per aiutare molti ragazzi con disabilità e lanciando un messaggio semplice e potente: “When everybody plays, we all win”.
Il resto però è stata una serie infinita di gag, testimonial in situazioni imbarazzanti e aziende talmente terrorizzate dal rischio di non essere notate da inserire il proprio nome almeno una decina di volte in 30 secondi di spot, sempre facendo attenzione a non toccare qualche argomento “scomodo”, ovviamente.
Rimane da capire però se questa “retromarcia” e questo trend siano dipesi da una “paura” condivisa da parte dei brand di non piacere a tutti, scegliendo quindi di andare sul sicuro con qualcosa di divertente o se invece il tutto può essere interpretato in maniera diversa.
E se…?
Difficile dare un giudizio netto su quelli che potrebbero essere i motivi dietro alle scelte di molti brand quest’anno e sarebbe sbagliato saltare a conclusioni affrettate. Forse molte aziende hanno davvero temuto di scontentare qualcuno, rifugiandosi nella comicità, o forse è solo stato un Super Bowl sottotono nel suo insieme.
È interessante però prendere in considerazione uno scenario alternativo che non per forza deve essere la “giusta spiegazione”, ma piuttosto un What if: e se in questo momento storico il Super Bowl non fosse più il “momento più importante dell’anno” per lanciare i propri messaggi? O meglio, se non fosse il momento più importante per comunicare con i millennials?
Probabilmente non è così, probabilmente il Super Bowl è ancora il miglior palcoscenico possibile, tuttavia il dubbio può nascere quando si confronta il trend dei commercial di quest’anno con il “problema” che l’NFL (National Football League) ha con i millennials.
Negli ultimi anni infatti, specialmente dopo la protesta di Colin Kaepernick (e di tanti altri) e il trattamento da lui ricevuto, l’NFL sembra non affascinare più così tanto il pubblico dei millennials e dei giovanissimi tanto quanto ha fatto fino ad oggi, ad esempio, con le generazioni precedenti.
Già da una ricerca condotta nel 2014 da Jeetendr Sehdev emerge che non solo l’NFL non ha affatto lo stesso appeal sui millennials, ma che anzi il 67% di quest’ultimi non ha fiducia nella lega di football americano, mentre il 61% definisce l’NFL un’organizzazione “squallida” (sleazy organization) e il 54% considera la stessa lega in prevalenza anti-gay. Tutto questo prima ancora dell’era Trump, prima della bufera Kaepernick e del successivo divieto imposto dalla lega ai giocatori di inginocchiarsi durante l’inno.
Non è un caso che oggi anche il famoso Half-time Show non sia più lo stesso. Considerato da sempre il picco massimo per un artista, quest’anno si è dovuto attendere fino a metà gennaio per l’annuncio ufficiale della headline, a causa dei numerosi rifiuti da parte di band e artisti che non vogliono più essere associati alla NFL. Gli stessi Maroon 5 e il rapper Travis Scott, protagonisti quest’anno del concerto di metà partita, sono stati pregati dai propri fan di non partecipare al Super Bowl e sono stati criticati per la scelta da molti altri.
Ancora, il problema dell’NFL con i più giovani è mostrato da scelte di marketing da parte della lega che rappresentano tentativi disperati di avvicinarsi (goffamente) ai più giovani, una tra tutte la collaborazione con il celebre videogioco Fortnite.
Un’inversione o qualcosa sta cambiando?
E se i brand avessero capito che per prendere posizione, per comunicare, ma soprattutto per stringere un legame forte con il pubblico dei millennials esistono altri momenti e altri canali migliori del Super Bowl (sicuramente meno costosi)? E se, proprio per i tanti problemi d’immagine dell’NFL negli ultimi anni, molti brand (non tutti, perché anche quest’anno chi si è spinto avanti c’è stato) avessero deciso di veicolare i messaggi più importanti altrove? E se, proprio per chi ha compreso che oggi più che mai non si può piacere a tutti, il Super Bowl non avesse più lo stesso appeal dato un tempo dalla possibilità di raggiungere il maggior numero di persone possibili?
Forse sono solo ipotesi infondate, forse sono solo associazioni improbabili. Forse è stato solo un Super Bowl un po’ più moscio del solito, dal match in sé ai commercial, pur con qualche eccellenza.
Quello che è certo è che l’NFL ha un serio problema d’immagine e di credibilità, specialmente con il pubblico più giovane, il pubblico di domani ma già il pubblico di oggi. E, guarda caso, è un problema che non deriva dalla bellezza dello sport, ma da una serie di atteggiamenti messi in atto della lega negli ultimi anni: repressivi contro una protesta come quella di Kaepernick, ma troppo spesso indifferenti e distaccati dalle accuse di violenza rivolte ad alcuni giocatori. Cosa si diceva riguardo al nuovo pubblico e alla richiesta rivolta ai brand di prendere posizione e di non rimanere indifferenti alle problematiche della società?