
Ogni volta che apriamo l’armadio alla ricerca dell’outfit perfetto non abbiamo niente da metterci. Questo non è per la giusta occasione, quello è passato di moda… la soluzione? Fare shopping, naturalmente. Compriamo spesso vestiti che indossiamo solo un paio di volte e poi restano lì, a riempire un armadio che contiene molte più cose di quante ce ne servano realmente. Lo spreco (di soldi e materiali) nell’industria del fashion è un problema serio che va affrontato con strategie innovative.
I business sono cerchi, non linee
Se avete già letto l’articolo Moda sostenibile, molto più di un semplice trend sapete che la sostenibilità nella moda è un argomento molto attuale e che molte aziende si sono già mobilitate per affrontare la questione.
A differenza di altre industrie però, in quella del tessile è particolarmente difficile mettere in atto un sistema di riciclo in ampia scala a causa dei costi elevati in termini di tempo e manodopera richiesti dal processo di recupero delle materie tessili.
L’obiettivo diventa quindi quello di ridurre o eliminare lo spreco di capi e tessuti, mantenendoli in circolazione più a lungo. Ed è proprio per questo che sempre più aziende puntano sulle economie circolari e basate sui servizi: prestito, riparazione e mercatini dell’usato, per allungare la vita dei materiali e creare maggior valore all’interno di un’economia.
Esistono 3 principali modelli di business basati sull’economia circolare:
- Circular: il cui obiettivo principale è “chiudere il cerchio” puntando sull’eliminazione dello spreco e incoraggiando il riutilizzo.
- Servitization: che punta tutto su riparazione e prestiti, dando più importanza alla funzionalità che alla proprietà.
- Sufficiency: che incoraggia un utilizzo attento delle risorse e l’eliminazione dello spreco a monte.
Ma come funziona davvero l’economia circolare nel campo della moda? Esistono aziende che mettono in pratica questi modelli?
#1 Circular: Filippa K, “long lasting simplicity”
Il modello circolare punta ad eliminare lo spreco: come? Ciò che sembra un rifiuto per qualcuno può diventare la materia prima per altri, ed è proprio questo il concetto alla base di Filippa K, l’azienda svedese fondata nel 1993 da Filippa Knutsson con la volontà di fondere tecniche tradizionali e moderne per la creazione di un valore sostenibile nel tempo.
L’azienda, che ora offre un vasto catalogo di vestiti maschili e femminili, scarpe accessori e capi sportivi, è nata come negozio per la vendita di capi di seconda mano per poi sviluppare nel 2015 quello che è diventato il pilastro del suo successo: il “collect concept”. Il funzionamento è molto semplice: i clienti possono ritornare i loro capi usati in un qualsiasi negozio Filippa K e ricevere uno sconto del 15% sul prossimo acquisto. L’azienda rivende i capi in condizioni ancora ottimali a metà del prezzo originale nel negozio di seconda mano con sede a Stoccolma aperto nel 2007, mentre dona quelli restanti in beneficenza.
Se invece i capi usati vengono consegnati direttamente al negozio di seconda mano di Stoccolma, questi restano in esposizione per un mese, al termine del quale il proprietario riceverà il 40% del prezzo in caso di vendita dei capi o i capo stessi, se nessun cliente gli ha acquistati.
Filippa K punta a “chiudere il cerchio” fondandosi sui quattro principi base della moda ecosostenibile: ridurre, riparare, riutilizzare e riciclare. Una scelta, quella della sostenibilità, che non solo è l’identità del brand, ma che è anche la chiave della sua crescita. In un decennio è passata da negozio di abiti usati a brand riconosciuto e con visibilità internazionale, grazie anche al sostegno di Emma Watson. L’attrice ha infatti ha dichiarato che Filippa K è uno dei suoi brand preferiti per lo stile, la semplicità, la qualità e l’ecosostenibilità di prodotti e processi.
#2 Servitization: Le Tote, “Netflix for fashion”
Applicando la servitization le aziende di moda puntano sull’aumento dei servizi di riparazione e garanzia e sull’offerta di servizi di noleggio e prestito. In questo modello la funzionalità supera per importanza la proprietà e il cliente paga per il servizio offerto e non per il prodotto acquistato. La servitization è già utilizzata in altri settori, ma per quello della moda è una novità.
Le Tote, la start up fondata nel 2012 da Brett Northart e Rakesh Tondon a San Francisco, è ormai conosciuta come “il netflix del fashion”. I fondatori hanno avuto l’idea dopo aver osservato che le mogli, stanche degli armadi pieni di capi utilizzati soltanto in un paio di occasioni, avevano cominciato a scambiarseli tra amiche, ed essersi chiesti perché non ampliare la rete?.
I clienti Le Tote pagano un prezzo fisso mensile (che parte da 39 dollari) per una selezione di capi e accessori personalizzati. Ogni mese gli iscritti al servizio ricevono una scatola con capi che possono indossare quante volte vogliono e poi decidere se comprare o restituire prima di ricevere la scatola successiva.
Dal momento della fondazione l’azienda ha continuato ad espandersi sfruttando la crescente popolarità dello shopping online e dando la possibilità ai clienti di ricevere, provare e comprare vestiti direttamente a casa loro.
In soli 5 anni, Le Tote si è evoluta notevolmente per adeguarsi alle richieste dei clienti: la possibilità di comprare e tenere i vestiti preferiti per esempio all’inizio non esisteva, così come non era possibile vedere in anteprima la selezione dei capi che si riceveranno e modificarla se non si è soddisfatti. Inizialmente infatti il contenuto era selezionato dagli stilisti sulla base delle preferenze espresse dal cliente al momento dell’iscrizione e non c’era modo di conoscerlo in anticipo o cambiarlo.
Ma Le Tote non crea valore solo per i clienti, che ricevono i capi, ma anche per i brand, che hanno accesso al vasto database di preferenze e feedback dei clienti.
La strategia utilizzata da Le Tote ha le carte in regola per avere successo e sul mercato ci sono già altre aziende del settore che se ne sono accorte e l’hanno adottata: per esempio Stitch Fix o la danese Vigga, che spedisce vestiti per bambini a 50 euro al mese.
#3 Sufficiency: YR, “this is yours”
Il modello di sufficiency, invece, si pone come obiettivo l’uso efficiente delle risorse disponibili e l’utilizzo di quelle in eccesso. Gli strumenti più utilizzati sono il management della domanda, allo scopo di produrre esattamente quello di cui i clienti hanno bisogno, e la co-creazione di prodotti su misura per il cliente, allo scopo di sfruttare l’eterogeneità della domanda per creare prodotti personalizzati. Questo è il metodo che riduce maggiormente l’uso e lo spreco di risorse e offre anche la possibilità di creare un forte legame di lealtà e fiducia tra il cliente e l’azienda.
YR (pronunciato come “your”), è un’azienda che utilizza un metodo molto innovativo per evitare gli sprechi e offrire ai clienti prodotti personalizzati. Fondata nel 2013 a Londra, YR utilizza un software che permette ai clienti di creare il proprio design con dei tablet appositi e una tecnologia di stampa capace di riprodurre sui capi esattamente ciò che il consumatore richiede in soli 10 minuti.
Anche il famosissimo brand Zara utilizza un modello di sufficiency decidendo solo circa la metà della produzione con 6 mesi di anticipo e il resto affidandosi ai dati ricavati dal mercato in tempo reale. Così facendo, limita l’eccessiva produzione di capi che rimarranno invenduti e si adatta alla domanda producendo ciò che il cliente vuole.
Un futuro circolare
Considerati i ritmi frenetici e i continui cambiamenti nell’industria del fashion i casi di aziende che utilizzano modelli come quelli descritti in precedenza sono in continua crescita. Le economie circolari rappresentano una grande opportunità nel mercato odierno: un recente studio ha infatti concluso che se in Europa venissero applicati i principi dell’economia circolare si potrebbe creare un profitto di 1.8 trilioni di euro entro il 2030.
Il rapporto con il cliente e la grande capacità di adattamento delle organizzazioni circolari rappresentano un ottimo modo per differenziarsi e rimanere competitivi, soprattutto nel caso di industrie come quella della moda. I grandi colossi della moda quale strada sceglieranno?