
Cosa vuol dire conoscere i propri clienti e saper parlare con loro? In che modo si può preservare la propria autenticità e la propria unicità senza però ricadere nel banale?
Di questo ne abbiamo parlato insieme a Ludovico Bertè, Creative Brand Director di Velasca, una delle realtà della fashion industry italiana più in vista negli ultimi anni, che ha saputo fare proprio e valorizzare l’artigianato italiano e il valore del bello e fatto bene all’italiana.
Ciao Ludovico e benvenuto su This MARKETERs Life. Per prima cosa ti volevo chiedere di raccontare chi sei, cosa fai e qual è il percorso che ti ha portato dove sei oggi.
Ciao Emanuele, sono un ragazzo ormai di 33 anni, di Milano, dove ho studiato e dove lavoro. Dopo il liceo mi sono iscritto ad architettura urbanistica al Politecnico di Milano e dopo un buon percorso universitario ero super carico per entrare in quel mondo.
Poi evidentemente qualcosa non ha funzionato perché ho iniziato a mandare curriculum senza essere richiamato. Allora nel frattempo mi sono avvicinato al mondo delle fotografie e dei video, iniziando a scrivere a varie realtà per propormi come videomaker/fotografo. Tra queste, ho scritto a Enrico Casati, fondatore di Velasca e mio caro amico, al quale ho proposto in regalo un video in cambio di poterlo poi inserire nel mio portfolio.
Da quel video – realizzato a febbraio 2014 – ormai sono passati 8 anni e sono ancora in Velasca. Da questa mia passione (nata da autodidatta), che considero come un segno del destino, è nato tutto, i miei 8 anni lavorativi che ho fatto sempre e solo in Velasca.
Quindi sei partito facendo il fotografo e video-maker per Velasca?
Esatto, sono entrato in stage l’1 Marzo 2014, stesso giorno di Jacopo Sebastio, co-founder di Velasca. Quindi noi tre lavoravamo dal garage dei genitori di Enrico, ci occupavamo di tutto quello che c’era da fare e gestivamo anche un piccolo corner in un negozio di vestiti in Via Sottocorno alternandoci durante il weekend. Oltre a questo rispondevamo ai clienti, facevamo le grafiche, i social e tutto il resto, ma nessuno di noi aveva un minimo di esperienza nel mondo delle scarpe, ci tengo a sottolinearlo.
Prima di Velasca, Enrico lavorava in una banca d’investimenti a Singapore, Jacopo era in consulenza e io mi ero appena laureato in architettura e urbanistica, quindi di scarpe nessuno sapeva nulla, di e-commerce nessuno sapeva nulla, di social ancora meno. Questo è stato l’inizio della nostra magica avventura.
Cosa ti porti del tuo background di architettura nel tuo attuale lavoro di brand director? Cosa ti ha lasciato nel tuo approccio e nel tuo modo di essere?
Diciamo che tutti i giorni da quando ho iniziato a lavorare ad oggi mi chiedo cosa me ne stia facendo di quella laurea, però poi mi sono dato delle risposte: ho imparato già prima di entrare nel mondo del lavoro come si lavora in squadra, che è importantissimo. All’università, infatti, facevamo tantissimi esami che prevedevano un lavoro in team: quindi ho imparato un approccio pratico e come gestire un piccolo gruppo di persone, che mi è sempre venuto abbastanza naturale e che nel “mio” lavoro è fondamentale.
Nella pratica ho imparato ad usare tutto il pacchetto Adobe senza il quale sicuramente all’inizio non avrei potuto fare il mio lavoro. E poi la voglia di curiosare, di esplorare il mondo, mi è rimasto molto quello: guardando anche i nostri shooting c’è molto l’architettura, la ricerca del bello, dell’estetica dei luoghi. Non so se sia una cosa che mi porto dentro per quello che ho studiato, però sicuramente qualcosa è stato seminato in quel periodo.
Come vi approcciate per superare il “tutto perfetto” delle riviste patinate per mostrare una realtà artigianale con una fortissima componente di umanità come quella di Velasca?
Sin da subito la nostra sfida è stata quella di uscire dallo stereotipo del tutto perfetto, mettendoci la faccia e raccontando delle storie dove il nostro prodotto si vede, ma non è il focus principale. All’inizio facevamo pubblicità con la classica foto still life, con sfondo bianco; adesso la pubblicità la facciamo con un personaggio che sta tagliando la legna a Livigno, dove la scarpa la si vede proprio piccolina.
Perché, appunto, non vogliamo fare delle campagne asettiche che non trasmettono nulla, dove tutto è perfetto, irraggiungibile. Preferisco i brand che fanno vivere un’esperienza, ed è quello che cerchiamo di fare noi: mostrare il prodotto, ma immerso in quello che è la quotidianità o quella che potrebbe esserlo.
Ovviamente poi cerchiamo anche noi atmosfere aspirazionali, però sempre raccontando qualcosa, facendo vedere il prodotto e dove si potrebbe portare, come si potrebbe indossare. Questa secondo me è la cosa che ci differenzia: siamo noi stessi clienti di Velasca e quindi cerchiamo di raccontare la nostra vita. In maniera aspirazionale però.
Cerchiamo di avvicinarci e far vedere ai nostri clienti che siamo persone normali come loro, esattamente come loro, sullo stesso piano: a noi interessa far breccia direttamente nel cuore delle persone che poi ci indossano ogni giorno, piuttosto che nel cuore dei buyer di retailer – come avviene magari per i brand wholesale – per far sì che restino più tempo possibile insieme a noi.
Quindi dobbiamo raccontare qualcosa in più, creare una community di persone appassionate non solo al prodotto ma ai valori che trasmettiamo come brand: questa è la sfida che abbiamo portato avanti sin da subito, cioè far diventare Velasca un brand che rappresenta uno stile di vita, quello del bello e fatto bene all’italiana.
Ludovico tu sei milanese, così come Enrico e Jacopo (i due fondatori). Velasca è il nome della torre molto discussa (ma secondo me bellissima) simbolo del boom economico milanese. Quanto è nel DNA di Velasca la componente milanese?
In realtà ci sentiamo più italiani che milanesi. C’è una forte componente di milanesità, assolutamente, a partire dal nome, e ai nomi delle scarpe che sono tutti in dialetto milanese, però non vogliamo risultare uno stereotipo milanese, tant’è che abbiamo deciso di girare l’Italia e raccontare l’Italia a 360°, non solo Milano.
Sicuramente facciamo un prodotto che a Milano funziona e tutte le scarpe che noi abbiamo a catalogo sono quelle giuste per un milanese, ma sono scarpe che sono giuste anche in qualsiasi altra città. Il nostro gusto ha una forte identità milanese, ce l’abbiamo dentro e probabilmente la si percepisce tra le righe, ma non la vogliamo comunicare troppo. Siamo italiani a 360 gradi e cerchiamo di raccontare quello.
Sul vostro profilo Instagram si può scorrere fino agli inizi dei vostri post. Quanto è secondo te importante essere trasparenti e mantenersi fedeli a se stessi soprattutto nei confronti del cliente?
Su Instagram non abbiamo mai cancellato i nostri post e la cosa più bella, e di cui vado fiero, è che in un post ogni tre – da sei anni a questa parte – non ci sono le nostre scarpe ma solo immagini legate all’italianità, al Made in Italy, ai luoghi, al paesaggio, agli artigiani, al racconto insomma, proprio per creare la nostra community di persone legate a questi valori.
Non aver mai cancellato nessun post per noi è non dimenticarsi mai da dove siamo partiti, le nostre origini. Non cancelleremo mai nulla perché chi ci segue deve poter vedere da dove siamo partiti, dove siamo arrivati e seguire il percorso di evoluzione del nostro brand.
Anche sui nostri profili LinkedIn raccontiamo molto di quello che che avviene nel dietro le quinte e ci piace proprio tanto, per essere trasparenti e non avere segreti con la nostra community. Quindi non vedo proprio perché dovremmo cancellare cose che – nonostante le più vecchie possano essere tecnicamente inqualificabili – rappresentano quello che siamo ancora prima di quello che facciamo.
Trattiamo il nostro profilo Instagram proprio come fosse il profilo di una persona: seguiamo le pagine che ci piacciono, mettiamo like ai post che ci interessano, ma senza un’idea precisa, di brand, influencer o anche nostri amici.
La cosa bella è che lo gestiamo noi, da sempre: non abbiamo agenzie, non abbiamo nessuno che controlla i nostri post, siamo noi, persone che si sono messe lì e lo usano come uno strumento vero. E lo trattiamo come quello di una persona vera, reale. Questa secondo me è la componente più importante che crea la nostra coerenza.
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Raccontando il Made in Italy si rischia di cadere nel cliché del “pizza, pasta e mandolino”. Ma il Made in Italy è tanto altro, dall’Alto Adige alla Sicilia. È stato difficile e come avete fatto a trovare una vostra strada per una comunicazione autentica?
Assolutamente, è stata la prima “battaglia” che abbiamo combattuto. Su Instagram, quel post ogni tre sul Made in Italy che pubblichiamo non è una foto stereotipata ma abbiamo sempre cercato di trovare quel qualcosa in più che ci lega e ci rende orgogliosi: siamo italiani e vogliamo piacere prima di tutto agli italiani.
Quando abbiamo iniziato, avevamo dei competitor che facevano le scarpe nello stesso nostro paesino delle Marche, ma erano tedeschi: la grossa differenza tra noi e loro è che loro comunicavano il Made in Italy in maniera stereotipata, mentre noi lo comunichiamo da italiani. Che non vuol dire non comunicare la pizza, la pasta e il mandolino – perché comunque fanno parte della cultura italiana e del nostro heritage – ma raccontarli in maniera diversa, dando una sfumatura più vera e autentica.
Quando facciamo i nostri shooting, nella fase di pianificazione, chiediamo sui nostri social cosa le persone consigliano e contattiamo i locals della regione dove vogliamo andare per sapere cosa fare e dove scattare le nostre foto. E in quel momento si conosce la piccola realtà artigianale, il piccolo produttore e andiamo proprio a fare quelle cose, anche nella pratica.
Chiaramente, per poter comunicare questo tipo di Made in Italy è necessaria una rete di contatti e conoscenze, che un non-italiano fa più fatica ad avere.
Velasca è su diversi mercati, italiano, europeo, UK e Stati Uniti. Come si rimane coerenti alla propria identità pur parlando linguaggi diversi su mercati diversi?
Andandole a tarare su dei mercati diversi, nel senso che comunicare il Made in Italy agli Italiani non è comunicare il “pizza, pasta e mandolino” come dicevamo prima, ma per comunicarlo negli Stati Uniti può essere una componente. Certo che però bisogna rimanere coerenti con il proprio racconto, non trasformarsi per piacere su ogni singolo mercato: Velasca è questo, siamo fatti così e raccontiamo la nostra visione del bello e fatto bene all’italiana.
Abbiamo deciso di comunicare sui nostri social in inglese, perché questo ci avrebbe permesso di arrivare a tutto il mondo e quindi non abbiamo voluto creare barriere con nessuno. Cerchiamo di farci apprezzare da tutti e bilanciare il nostro mix di racconti: possiamo adattare come presentiamo alcuni concetti, ma se non veniamo apprezzati per il nostro racconto su determinati mercati non cambiamo per quelli. Magari ci adattiamo di più in termini di offerta di prodotto, con delle caratteristiche che sappiamo possono piacere di più in determinati paesi. Ma il racconto dell’identità del brand rimane sempre unico.
Quello che magari cambia è il negozio, a New York la scelta delle scarpe da mettere in vetrina è diversa da quella di Palermo, ma la nostra identità è unica e parla nello stesso modo a tutto il mondo.
Velasca è un brand che nasce digitale, ma poi nel suo percorso ha aperto anche dei negozi. Quanto è importante il fisico per conoscere meglio i vostri clienti e come adattate anche la vostra comunicazione ad un tipo di canale diverso?
Tantissimo. A dicembre 2014, abbiamo aperto un temporary store in Tortona a Milano e ce ne siamo occupati a 360° in prima persona: l’abbiamo arredato, abbiamo fatto i commessi, ci abbiamo lavorato e per noi ha rappresentato un momento di svolta, perché fino a quel momento eravamo e-commerce only. Ci eravamo fatti un’idea dei nostri clienti per target, età e modo di vivere.
Quando abbiamo aperto il negozio li abbiamo conosciuti e li abbiamo guardati in faccia, ci abbiamo parlato, ci abbiamo chiacchierato e tutto questo ci ha permesso di capire chi erano i nostri clienti e come comunicare con loro sia in negozio che fuori, con il nostro sito, newsletter ecc.
La stessa cosa è successa 5 mesi dopo, nel maggio 2015 quando abbiamo aperto il negozio all’Arco della Pace a Milano: per i primi tre mesi siamo stati noi a lavorarci e abbiamo conosciuto e parlato con i nostri clienti. Ci ha fatto capire dove dovevamo andare ma soprattutto come dovevamo parlare.
Nella comunicazione non abbiamo mai avuto grosse differenze tra offline e online, cerchiamo di portare il più possibile l’esperienza online verso l’offline e viceversa, per essere al 100% omnicanale. Però diciamo che ci teniamo molto anche ad andare noi stessi in negozio, e in Velasca chi si occupa di servizio clienti o di comunicazione ogni tanto fa delle giornate in negozio, per conoscere meglio i clienti, per sentire come parlano, guardare come si vestono, cosa dicono e come si approcciano. In questo modo si può comunicare meglio con loro anche online.
Domanda d’obbligo: indossi solo scarpe Velasca? 🙂
No, non solo Velasca, sono anche un appassionato di sneakers e scarpe sportive, soprattutto di quelle tecniche per il trekking. Però ho talmente tante scarpe Velasca che sono ormai diventate la mia uniforme nella vita di tutti i giorni. Anche perché negli anni ho avuto modo di provarle quasi tutte, per testarle prima di metterle sul mercato e quindi ne ho tantissime!
Grazie mille Ludovico per la tua disponibilità! Prima di salutarci, vuoi dare un consiglio per dei giovani che si avvicinano al mondo del lavoro e della comunicazione su come approcciarsi al lavoro e alla creatività?
Sì, ce l’ho ben chiaro e lo dico molto spesso perché ne sono convinto e l’ho vissuto su me stesso: ogni tanto mettere da parte i manuali e le guide.
Non sto dicendo che non siano importanti o che non bisogna essere preparati, ma una parte fondamentale del nostro lavoro è quella di essere curiosi, sperimentare, provare, testare, fare, sbagliare e rifare. Non ci sono delle regole scolpite nella roccia che valgono sempre e indistintamente, ma ci sono tantissime sfumature che fanno sì che la comunicazione debba essere adattata in continuazione, al tuo cliente, al tuo target. Quindi, provare e mettersi in gioco per cercare e trovare la strada giusta.
L’altro consiglio è quello di guardare e osservare: quando guardo i social o mi muovo in scooter e vedo una campagna che mi incuriosisce, mi fermo, la fotografo, prendo appunti, insomma la osservo. Raramente mi fermo a vedere i brand concorrenti perché poi si rischia di copiare e fare cose già viste e riviste, e non è mai bello, ma cerco di prendere stimoli da altri settori, per prendere ispirazione.
Quindi: osserva, provaci, fai, disfa, rifai. Noi in Velasca siamo cresciuti sbagliando e capendo passo dopo passo cosa funzionava e cosa no.
Che cosa ci siamo portati a casa dalla nostra chiacchierata con Ludovico Bertè?
- Essere veri e autentici paga, sempre: tramandare dei valori, creare una community intorno ad essi fa in modo che si percepisca un valore intorno al brand molto più elevato e non semplicemente legato al prodotto in sé, diventando così un top of mind per gli appassionati.
- Il valore del contatto con il cliente: chi conosce il proprio cliente ha sicuramente una marcia in più, e il caso Velasca lo conferma, la svolta c’è stata da quando il cliente si è materializzato all’interno dei punti vendita, mostrandosi ed essendo reale.
- Provare, fare e sbagliare: il valore dell’errore è sempre sottostimato, ma è grazie all’errore che si può trovare la propria strada, soprattutto in ambiti e in situazioni dove le regole non sono scolpite nella roccia ma possono variare in base al proprio interlocutore.