
Pochi mesi fa Kobe Bryant, uno dei più iconici giocatori di basket dell’ultimo ventennio, ha definitivamente chiuso la propria carriera. Tuttavia, la storia del suo ritiro è stata ben più lunga di una partita di metà aprile, ed è stata magistralmente orchestrata dalla Nike.
Era il giugno del 1996, quando al termine di un work-out privato con i Los Angeles Lakers, Jerry West (leggenda NBA e allora General Manager della squadra) disse ai propri collaboratori: “Dobbiamo fare qualsiasi cosa per prendere questo ragazzo”. Il nome del ragazzo in questione era Kobe Bryant, che all’età di soli 17 anni decise di non andare al college ma di entrare direttamente nella NBA, la massima lega professionistica di basket.
Scelto proprio dai Lakers di West, è iniziata per Kobe una carriera NBA con pochi eguali, nella quale è stato in grado di vincere 5 titoli di campione, 1 titolo di MVP (Most Valuable Player) della stagione regolare e 2 da MVP delle Finali, 18 apparizioni all’All-Star Game, oltre a due ori olimpici a Pechino e Londra.
Soffermarsi sulle gesta in campo del nativo di Philadelphia (e cresciuto in Italia, come molti sanno) non è però l’obiettivo di questo articolo, anche perché chi scrive soffre ancora profondamente per il ritiro di colui che è stato il vero e proprio idolo di gioventù.
Perché sì, Kobe Bryant si è ritirato.
L’annuncio del ritiro di Kobe Bryant
29 novembre, 2015. Apparentemente una tranquilla domenica allo Staples Center, dove i Lakers si apprestano a ospitare gli Indiana Pacers. Come un fulmine a ciel sereno, The Players’ Tribune – di cui Kobe è azionista – pubblica una lettera scritta proprio da Kobe Bryant, dal titolo “Dear Basketball”. Qui annuncia il proprio ritiro dal basket, che avverrà al termine della stagione 2015/2016.
La lettera in sé è un bellissimo spaccato sulla vita di Kobe, e racconta di un rapporto ossessivo vissuto con il basket a tutti i livelli: il passaggio “you asked for my hustle, I gave you my heart” (letteralmente “hai chiesto la mia dedizione, ti ho dato il mio cuore”) resta il più forte dei messaggi lasciati dal n°24.
Dear Basketball: https://t.co/KDecft6BO2 #KB20
— Kobe Bryant (@kobebryant) 29 novembre 2015
Sebbene Bryant abbia dichiarato più volte come l’annuncio fosse arrivato molto prima del termine della stagione per facilitare le scelte societarie future e rilassare l’ambiente, la più pragmatica visione dei fatti parla di un ennesimo capitolo hollywoodiano, aggiunto a una carriera fatta di prime pagine e di una persistente volontà di occupare il palcoscenico prima degli altri. Con la lettera d’addio stampata e lasciata a tutti gli spettatori allo Staples Center (a qualcuno anche con dedica particolare), è stato chiaro fin da subito come ci fosse dietro un palese intento di spettacolarizzare e commercializzare il cosiddetto “Farewell Tour”, che avrebbe riempito mesi di cronache sportive fino a metà aprile successivo.
Kobe + Nike, un binomio vincente
Il giovanissimo Kobe firmò il suo primo contratto di endorsement con Adidas, grazie al legame stretto che Sonny Vaccaro, pioniere dello sport marketing, strinse con lui durante gli ABCD Camp che lo stesso Vaccaro organizzava nel luglio delle estati americane degli anni ’90. Il rapporto di Kobe con le “tre strisce” fu breve ma intenso, e culminò – almeno per me – con uno spot in lingua italiana girato nella palestra di Via XXV Aprile a Varese, dove il sottoscritto ha passato le proprie ore di educazione fisica liceale a fantasticare del suo eroe.
Nell’estate 2002 Bryant, pare per risentimento verso il modello KOBE TWO disegnato dall’azienda tedesca per lui, lascia Adidas e firma per Nike, iniziando una partnership tra le più vincenti di sempre per lo swoosh di Portland. Ed è proprio la Nike che riveste un ruolo importante in questa storia, poiché ha accompagnato il Farewell Tour della leggenda losangelena in maniera magistrale, regalando attivazioni geniali e fornendo a tutto il mondo dello sports marketing un case study da tener lì nel cassetto per sempre.
Twitter e la Mamba Hunt
Al termine di un lungo live con Periscope, dove viene presentato al mondo il nuovo modello Kobe 11, Bryant stesso annuncia l’inizio della “Mamba Hunt”, una caccia a 20 paia delle nuove scarpe nascoste in 20 città del mondo, e invita i propri fan ad iniziare a cercarle grazie agli indizi lasciati dall’account twitter @NikeBasketball. Come si può facilmente immaginare, scatta un’isteria generale tra i suoi tifosi e in generale fra i cosiddetti sneakerheads (gli appassionati di sneakers), che percepiscono la storica occasione di mettere le mani su un cimelio di inestimabile valore. Il primo indizio richiama una storica prestazione di Kobe, capace di segnare 81 punti in una sola partita contro i Toronto Raptors. Ed è proprio a Toronto che viene nascosto il primo paio di Kobe 11, proprio alla base di una delle T installate nella suggestiva piazza centrale davanti alla City Hall. Da notare, oltre all’attivazione di portata globale, la cura che Nike ha nel predisporre packaging affascinanti e nel richiamare sempre performance a cui i fan sono particolarmente legati, due strumenti di marketing fondamentali quando si propongono sul mercato prodotti firmati da un atleta.
Clue 1: @KobeBryant once dropped 81 against this city’s team. Find the first pair just north of the border. #KOBE11 pic.twitter.com/S9BtqnFqH8 — Nike Basketball (@nikebasketball) 22 dicembre 2015
“Fade to Black”
A marzo, con l’avvicinarsi del giorno dell’ultima partita di Kobe (13 aprile), Nike crea la collezione “Fade to Black”, rivisitando tutti i modelli indossati dal campione dei Lakers con colorazioni che partono dal bianco e tendono gradualmente al nero, simboleggiando l’imminente ritiro di Bryant.
Non è una mossa nuova questa di Nike, poiché già nel 2013, come anticipazione delle Kobe 9, era stato realizzato il “Prelude Pack” dove dalla Kobe 1 alla Kobe 8 tutti i modelli venivano reinterpretati da diversi artisti, integrando ogni scarpa ad un diverso concept.
Immenso valore hanno questo tipo di iniziative per il mercato delle sneakers, e prova ne è il ricchissimo mercato secondario che nasce ogniqualvolta collezioni di questo genere, caratterizzate da alta creatività e tiratura molto limitata, vengono lanciate; se poi, come nel caso del Prelude Pack, hai testimonial del calibro di LeBron James a promuoverti il prodotto, sei sicuro di fare breccia nel cuore dei fans.
Amami, oppure odiami
Ben presto si capisce qual è il grande concept che Nike ha pensato per il “Mamba Day”, quel 13 aprile quando Kobe giocherà la sua ultima partita allo Staples Center contro gli Utah Jazz. Il messaggio attorno a cui gira tutta la campagna di marketing è perfettamente centrato su quello che Bryant è stato come giocatore e come personaggio: “Love me or hate me”, amami o odiami.
Il ragazzotto cresciuto fra Reggio Emilia, Rieti ed altre città italiane ha sempre diviso tantissimo i tifosi, sia per il proprio modo di giocare – è stato un attaccante formidabile ma di certo non un innato altruista, sia per i propri atteggiamenti e dichiarazioni fuori dal campo. Il processo giudiziario in Colorado, il grande feud con Shaquille O’Neal e quella sua ossessiva volontà di prevalere psicologicamente e tecnicamente sugli avversari hanno lasciato dietro di lui uno stuolo numeroso di haters.
E così l’8 di aprile esce il primo video che presenta questa contrapposizione di odio e amore, in cui Kobe, riferendosi direttamente ai suoi fan in Cina, li incoraggia ad odiarlo per quanto li ha frustrati, li ha spinti oltre il limite, li ha costretti a ore e ore di palestra per raggiungere il suo livello.
Due parole le merita il rapporto strettissimo che lega Bryant alla sua fanbase cinese, che dal ritiro di Yao Ming in poi non ha idolatrato nessuno più della guardia gialloviola. Ci sono sicuramente molte cause di questa connection, ma soprattutto c’è un’ammirazione totale degli appassionati di basket cinesi verso lo spirito di abnegazione e la voglia di migliorarsi che hanno fatto di Kobe l’incredibile giocatore che avrà il proprio spazio riconosciuto nella Hall of Fame di Springfield.
Una questione di famiglia
Visti i grandissimi sforzi di marketing richiesti dalla celebrazione del suo ritiro, una logica conseguenza per Nike è stata quella di sfruttare la popolarità dei propri atleti top in tutti gli sport per allargare l’audience e massimizzare la potenza del messaggio lanciato.
L’azienda di Portland ha perciò lanciato un video con cui altri atleti della famiglia si impegnano a trovare parole per descrivere le gesta eroiche del n°24: così come si sono sprecati elogi e complimenti vari, non sono mancati commenti dispregiativi come l’eloquente “asshole” pronunciato da Kevin Durant che chiude il video, continuando sul filone inaugurato con il commercial precedente.
Allo stesso tempo è stata annunciata la possibilità di creare un’immagine personalizzata, in una sezione apposita del sito di Nike, che esprimesse il sentimento più forte legato alla figura di Kobe. Tutti i fan si sono potuti sbizzarrire, passando da “Love” a “Passion”, da “Tough” ad “Aggressive”.
Atleti come Roger Federer, Serena Williams e Rory Mcllroy sono andati oltre e hanno vestito scarpe con una speciale dedica a Kobe, indicando la data del suo ritiro (4-13) sul fianco e attirando l’attenzione di fotografi, media e tifosi di differenti sport.
The Conductor
L’apice della narrativa “Love or Hate” viene raggiunta proprio il 13 aprile quando il team creativo di Nike, chiamato a celebrare con un ultimo commercial la grandezza di Kobe, si inventa un capolavoro che merita di essere inserito tra i migliori video di comunicazione sportiva mai realizzati.
Ci sono tantissimi dettagli di questo video che lo rendono fantastico.
Il momento
Gli ultimi attimi di una partita combattuta, con Kobe che la decide con uno dei canestri che lo hanno reso famoso.
L’ambientazione
Si gioca in trasferta, al Rose Garden di Portland, proprio uno dei campi più ostili a Bryant ed ai Lakers, in modo che l’accento sia posto sui suoi haters, e non sui suoi fan.
I co-protagonisti
Principalmente tifosi avversari, intenti a decantare il proprio odio sportivo verso Bryant, ma anche avversari storici di Kobe, come Paul Pierce e Rasheed Wallace.
L’illuminazione
Luci da palcoscenico su Kobe, ed un progressivo passaggio al buio nel corridoio imboccato verso gli spogliatoi e, metaforicamente, il ritiro.
La canzone
Bellissimo il messaggio “ti abbiamo odiato così tanto che non vogliamo più smettere”, e da evidenziare un meraviglioso passaggio di Phil Jackson (storico coach di Bryant) che con un gioco di parole “you’re reti…RING” pone l’accento sui successi ottenuti insieme sul campo (l’anello – ring – è il premio che riceve chi vince il campionato NBA).
Appena Nike divulga il video sui propri canali social, non sembra si possa parlare d’altro sul web. Pensiamo che su Twitter l’hashtag #MambaDay è comparso in oltre 1 milione di post, e nel complesso gli hashtag riguardanti il ritiro di Kobe hanno raggiunto 13 miliardi di impressions.
Quella partita del 13 aprile
La notte del 13 aprile è stata inusualmente ricca di avvenimenti storici nella NBA. Se solitamente la closing night della stagione regolare è un trascurabile passaggio verso i Playoffs, questa volta non solo si celebrava il ritiro di una leggenda, ma si attendeva anche il risultato dalla Bay Area, dove Stephen Curry e i suoi Warriors cercavano di superare il record di vittorie in stagione regolare (72, detenuto dai Chicago Bulls).
Ci sono state addirittura polemiche perché la ESPN ha deciso di spostare sul canale secondario la partita d’addio del n°24, premiando i Warriors, che poi hanno effettivamente vinto e chiuso con il record di 73-9.
La partita in sé non aveva alcun senso tecnico, visto che entrambe le squadre non avevano nessun interesse a vincere e i Lakers cercavano solo di far tirare l’ingombrante compagno di squadra, capace di prendersi qualcosa come 50 tiri e di segnare 60 punti, con un finale a dir poco emozionante. Tutto questo l’ha fatto, neanche a dirlo, indossando un modello limitato di Kobe 11, reso disponibile da Nike sul proprio portale iD.
L’eco mediatico dell’ultimo ballo
Con questo splendido grafico che ci regala TwitterReverb, possiamo osservare come il buzz sui social network fosse a livelli altissimi durante la partita, con picchi di 100 mila tweet al minuto riguardanti la stella dei Lakers ed altissimi tassi di engagement e condivisioni in tutto il mondo, e non solo quello sportivo.
Molte parole son state spese su quanto l’addio di Kobe sia stato sopra le righe, troppo commercializzato o, con una parola orrenda ma molto comune nel nostro linguaggio, “americanizzato”. E spesso il suo ritiro è stato accostato a quello di Tim Duncan, altra superstar NBA che ha annunciato l’addio in un insignificante giorno d’estate, lontano da riflettori, giornalisti e “Farewell Tour” di qualsiasi genere.
A mio modesto parere, l’uscita di scena di Kobe è stata un gran spettacolo teatrale reso possibile dalle contingenze, soprattutto vista la stagione senza pretese di una modestissima edizione dei Lakers. È certamente stato tutto inscenato con precise logiche di marketing, il che è accettabile non piaccia sempre agli appassionati, ma non deve distogliere i nostri occhi dalla grandezza del progetto di comunicazione che è stato cucito su di lui.