
Un primo piano di un uomo con la barba e video di gente che dà fuoco alle proprie sneaker Nike. Alzi la mano chi ha visto uno di questi due topic sul feed di uno dei propri social network! Le cose sono estremamente correlate ed il mondo, come spesso accade, è diviso. Negli HQ di Nike è stata presa una decisione più forte di quanto si pensi. Tutto questo per il 30° compleanno del suo payoff Just Do It.
Believe in something, even if it means sacrificing everything. #JustDoIt pic.twitter.com/SRWkMIDdaO
— Colin Kaepernick (@Kaepernick7) September 3, 2018
Chi è il volto scelto per la campagna dei 30 anni di Just Do It?
Colin Kaepernick, classe 1987.
Ai più questo nome non dirà niente, ma trattasi di un (ex) quarterback della NFL, la National Football League. “Ex” non perché l’atleta abbia deciso di appendere il proprio casco al chiodo, bensì perché la NFL stessa ha fatto sì che nessuna squadra lo mettesse sotto contratto, pena una multa, da quando è diventato free-agent nel 2017.
Ma perché? Per avere un quadro della situazione più chiaro bisogna tornare indietro di un paio d’anni, precisamente al 2016.
In quest’anno, infatti, Kaepernick ha deciso di rimanere seduto ed in seguito di inginocchiarsi durante l’inno americano in segno di protesta contro quelle disparità razziali e gli abusi di potere da parte della polizia nei confronti delle persone di colore. Questo ha avuto un buon seguito, tanto da lanciare un movimento nella NFL, molti altri atleti lo hanno infatti seguito.
La vicenda non si è ancora conclusa, in quanto Kaepernick porterà la lega, la NFL stessa, di fronte alla giuria di un tribunale.
La questione ha acceso un dibattito nazionale ed è stata affrontata anche dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in prima persona.
Questo il tweet, intriso di nazionalismo, del presidente in data 5 Settembre 2018:
Just like the NFL, whose ratings have gone WAY DOWN, Nike is getting absolutely killed with anger and boycotts. I wonder if they had any idea that it would be this way? As far as the NFL is concerned, I just find it hard to watch, and always will, until they stand for the FLAG!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) September 5, 2018
Endorsed athlete del brand dal 2011, dal momento dello scandalo, Nike ha deciso di non rescindere il contratto in essere con il quarterback, ma al tempo stesso non ha più utilizzato l’immagine di quest’ultimo per scopi commerciali. Almeno fino a lunedì 3 settembre 2018 (Labor Day negli USA n.d.r.).
#BoycottNike
Ovviamente, quando un brand decide di prendere posizione non può che incontrare sia l’approvazione che il disprezzo. #BoycottNike è l’hashtag lanciato da coloro che non si rivedono nella scelta di Nike, numerosi sono, infatti, gli episodi e i video diventati virali con al centro persone che stanno letteralmente incenerendo le proprie sneaker o i propri indumenti Nike e nel contempo invitando altri a non comprare più alcun articolo sportivo dello Swoosh.
My friends and I support you in Israel @alteratyeshiva. Thank you for standing up for the Anthem and for the flag
.@Nike Due to your support of C.K. in your coming adds, I as an American can no longer support your company. #boycottNike #IStandForOurFlag pic.twitter.com/IbRDtTDtb8
— Yanki farber (@Farberyanki) 6 settembre 2018
Una campagna di brand positioning forte e provocatoria
Il claim della campagna è breve, conciso e denso di significato, proprio con il Just Do It che caratterizza Nike da 30 anni. Non c’è riferimento alcuno a prodotti.
Chi parla è proprio Nike stessa attraverso l’immagine di un suo atleta.
Believe in something. Even if it means sacrificing everything.
Credere e combattere per i propri ideali, proprio come il protagonista della campagna, nonostante questo possa voler dire perdere, anzi sacrificare quanto di più caro.
Delle 9 parole di cui si compone il claim l’attenzione cade su 4 in particolare:
- Believe, coniugato al modo imperativo. Definirlo un invito sarebbe oltremodo riduttivo. Attraverso questo verbo Nike incita le persone a credere, ad avere fede;
- Sacrificing, qui il richiamo al dolore è chiaro. Questo verbo, contrapposto al credere, aggiunge epicità e suggerisce che il proprio sacrificio possa servire per un bene più grande;
- Something, qualcosa. Una parola “contenitore”. Chiunque, infatti, leggendo il claim può riempire quel qualcosa con il significato che più gli si avvicina.
- Everything, tutto. Qui giace il cosiddetto “prezzo da pagare”.
Così lo slogan, a una lettura più approfondita, assume un tono quasi biblico, richiamando quel martirio tipico della narrativa tragica che ben si sposa con un messaggio così forte.
La scommessa di Nike
Una azienda al 100% americana che sceglie di avvalersi dell’immagine di un atleta che ha pubblicamente protestato contro l’inno americano. Cos’è questa se non una grossa scommessa? Specialmente in una nazione fortemente legata al proprio orgoglio nazionale come gli Stati Uniti.
Nike sceglie di inserirsi in un argomento particolarmente attuale e scottante, invece di rimanere neutrale rispetto alla questione.
“We believe Colin is one of the most inspirational athletes of this generation, who has leveraged the power of sport to help move the world forward.”
Così Gino Fisanotti, Nike VP of Brand per il Nord America, ha commentato la campagna, aggiungendo poi:
“We wanted to energize its meaning and introduce ‘Just Do It’ to a new generation of athletes.”
Il target del messaggio è dunque la cosiddetta Generazione Z, molto più propensa a prendere una decisione ed una posizione.
Il Just Do It di Nike ha conquistato tutte le precedenti generazioni, ora punta dritto a coloro che saranno i decision-maker del futuro, in un modo netto e schietto.
Menzione è d’obbligo anche per tutti gli altri volti, ben più noti di Kaepernick nel Vecchio Continente, che Nike userà per questa campagna: LeBron James, Serena Williams, Odell Beckham Jr.
Scommessa vinta o persa?
Troppo presto per poter emettere una tale sentenza.
Nella giornata di ieri, infatti, Nike ha chiuso in ribasso del 32% in borsa, ma stando all’agenzia Apex Marketing Group, qui riportato Bloomberg, solamente nelle prime 24h della campagna Nike avrebbe ricevuto un’esposizione mediatica per 43 milioni di dollari.
È possibile aggiungere questa campagna a tutti i numerosi case-study che Nike, con la sua comunicazione, da sempre produce. In questo caso l’azienda di Beaverton è stata bravissima a sfruttare l’immagine di quello che, allo stato attuale delle cose, non è possibile considerare un atleta, bensì un attivista. Perchè nonostante il ban, Kaepernick non ha mai smesso di difendere la causa in cui crede, la stessa che gli è costata gli ultimi anni della sua carriera.
Rispondere alla domanda di inizio paragrafo è difficile, il buzz generato è ancora troppo forte per capire quali saranno le conseguenze e gli esiti della campagna.
Come sempre ai posteri l’ardua sentenza.
Certo è che, il rumore di questo placcaggio da parte di Nike nei confronti di una vicenda che tocca uno dei dibattiti più accesi degli ultimi anni, continuerà a riecheggiare nel web (e non solo) per parecchio tempo.