
Tra merendine che sconvolgono le “pancine” di mezza Italia e birre che fanno infuriare Trump durante l’evento sportivo americano più importante dell’anno, su This MARKETERs Life ci siamo chiesti cosa significhi fare pubblicità oggi e quanto è cambiato il settore negli ultimi anni.
Che facciate parte o meno del settore della pubblicità, che siate appassionati di advertising o che siate tra quelli ai quali prudono le mani ad ogni passaggio di uno spot, difficilmente non avrete mai sentito parlare dell’ultimo (o meglio degli ultimi) spot di Buondì Motta e del grosso “caso” ad esso legato.
Una campagna che ha fatto tantissimo parlare di sé divenendo virale sui social e che ha fatto infuriare le communities delle cosiddette “pancine” che, offese dai messaggi “pericolosi e anti-famiglia” che la campagna veicola, si sono immediatamente messe in moto per lanciare campagne di protesta e boicottaggio verso la brioche Motta.
Il risultato è stato quindi quello di avere da un lato una grande visibilità per il brand e il prodotto, insieme all’apprezzamento da parte di molti, ma dall’altro un’esplosione di vere e proprie campagne “anti-Buondì” da parte di offesi e indignati.
In questi casi viene quasi da chiedersi: “ma campagne di questo tipo non danneggiano l’immagine del brand?”, “ma non è controproducente offendere una fetta di mercato che dichiara così di non voler più scegliere quel brand?”, o ancora “ma non è dannoso uno spot che di fatto divide tra pro e contro e che tende a scontentare una parte di mercato?”; ma soprattutto “l’obiettivo della pubblicità e di un brand non è quello di piacere al maggior numero di persone senza rischiare di scontentare nessuno?”.
Piacere a tutti e non piacere a nessuno
Credo che partendo da queste domande e dal “caso Buondì” (ma non solo) si possa comprendere cosa significa, in un certo senso, fare pubblicità oggi.
Perché chi pensa che le campagne di boicottaggio e le polemiche nate dopo lo spot siano una “crisi” non prevista dal brand si sbaglia di grosso. Qui non si tratta di un errore, di una dichiarazione uscita male che ha fatto scoppiare una bomba inaspettata (vero Barilla?).
È invece altamente probabile che Motta sapesse esattamente a cosa sarebbe andata incontro con uno spot del genere e ciò in un certo senso è un chiaro segnale di quanto sia cambiato e quanto ancora stia cambiando il modo di fare pubblicità.
Quello che dobbiamo metterci in testa oggi è che non possiamo piacere a tutti.
E non si tratta di mettersi il cuore in pace, né tantomeno di accontentarsi e piegarsi all’idea dell’impossibilità di guadagnare l’apprezzamento di tutti. Al contrario, non possiamo piacere a tutti e non dobbiamo piacere a tutti perché oggi, forse più che mai, risulta fondamentale invece prendere una posizione, ancor più che “posizionare” il prodotto.
Prendere posizione significa rendersi conto, come brand, di essere parte di un contesto che non è possibile ignorare, fatto di argomenti spinosi e tematiche rilevanti. Significa in un certo senso “schierarsi”, esporsi, mettendo in pubblico l’universo di ideali che il brand abbraccia e supporta.
Questo perché di fronte ad un pubblico sempre più attento, critico e sempre meno interessato ai messaggi commerciali e più concentrato invece sui comportamenti del brand, è necessario cercare di andare oltre alla semplice esaltazione del prodotto, per tentare di costruire invece un legame con il pubblico che si basi su un universo valoriale condiviso, in un contesto in cui sempre più la scelta d’acquisto da parte degli individui è una scelta valoriale ancor prima che di prodotto.
Non prendiamo(ci) in giro
Attenzione però a credere che dunque oggi fare pubblicità significhi “raccontare delle storielle” al pubblico, come purtroppo troppo spesso viene inteso erroneamente il tanto celebrato “fare storytelling”.
Lo stesso pubblico attento e critico è anche estremamente difficile da manipolare o ingannare (e per fortuna) con storielle pensate a tavolino e valori appiccicati all’immagine di brand.
Ai brand oggi vengono chieste piuttosto delle prese di posizione concrete, che certo inevitabilmente polarizzano, dividono, ma che sono alla base della costruzione della reputazione del brand e di legami forti con il proprio pubblico.
D’altronde già nel 2000 il Cluetrain Manifesto affermava che “le aziende che cercano di ‘posizionarsi’ devono prendere posizione”, che “le aziende devono condividere i problemi della loro comunità”, e ancora che “i mercati vogliono parlare con le aziende”. Mentre ancora oggi Paolo Iabichino, Chief Creative Officer di Ogilvy & Mather, afferma che l’obiettivo deve sempre essere quello di “far risuonare il destino delle marche con quello delle persone” e ci ricorda l’importanza della reputazione del brand nel suo ultimo libro “Scripta Volant” (se non l’avete già letto, recuperate immediatamente!).
Ecco perché, tornando al punto di partenza, la campagna di Buondì Motta non può essere considerata solo una trovata del famoso “purché se ne parli” (che già ci ha regalato meravigliose mostruosità) ma una vera e propria strategia che sciocca, sovverte il comune linguaggio “da merendina” e, in un certo senso, differenzia il brand che prende una posizione, scherzosa e irriverente ma forte, sul discusso tema delle mamme super protettive e della famigliola perfetta.
Budweiser, Lumber 84 e il sogno americano
Ma “Buondì Motta” non è l’unico esempio, e forse nemmeno il più forte, di come sia cambiato (e di quanto ancora stia cambiando) il modo di fare pubblicità.
Spostandosi oltreoceano, durante il Super Bowl 2017, l’evento sportivo più seguito al mondo e palcoscenico per i commercial più costosi dell’anno, abbiamo assistito a due esempi molto differenti per modalità e costruzione dal “caso Motta”, ma che rispecchiano alla perfezione quanto detto finora.
Parliamo del commercial di Budweiser e di quello di Lumber 84 che, attraverso racconti diversi, hanno preso una posizione netta sulla spinosa questione dell’immigrazione e nei confronti dello stesso Presidente USA Donald Trump.
Il primo attraverso la narrazione della storia del suo fondatore, un immigrato che in passato ha inseguito il “sogno americano” e ha creato così LA birra d’America; il secondo mostrandoci un viaggio di una mamma e sua figlia, fatto di sofferenza e speranza alla ricerca di un futuro migliore.
Entrambi i commercial, per i quali sono stati spesi milioni di dollari solo per poter essere mostrarti durante il Super Bowl, hanno fatto scoppiare immediatamente il caos su Twitter, dove sostenitori di Donald Trump (e lui stesso, in realtà) hanno fatto partire campagne di protesta e di boicottaggio verso i due brand, definiti “anti-americani” e “promotori di un’immigrazione incontrollata e pericolosa”.
Ma se pure lo stesso Presidente degli Stati Uniti si schiera contro di te, come può questo non essere disastroso per il brand?
Eppure sono fermamente convinto che Budweiser e Lumber 84 non abbiano reagito pensando “oh mio dio, siamo rovinati”, all’esplosione di tweet tra cui quello del Presidente, ma piuttosto abbiano esclamato un chiaro e raffinato “chissenefrega!”.
Perché per i tanti scontenti e indignati che si sono fatti sentire dopo i due commercial, dall’altra parte tanti, tantissimi hanno amato e supportato i due brand che si sono schierati contro un’ideologia, di certo diffusa, ma che va contro ogni sogno o ideale americano e che non li rappresenta. Le stesse persone che oggi probabilmente scelgono Budweiser o Lumber 84 perché in essi riconoscono un universo di valori condivisi e con i quali sentono un legame più forte.
Tre casi diversi, un filo comune
In modi anche molto differenti i tre casi di Buondì Motta, Budweiser e Lumber 84 mostrano, insieme a tanti altri casi e in maniera evidente, quanto sia fondamentale oggi prendere una posizione (che lo si faccia in modo irriverente o estremamente serio), perché è lo stesso pubblico che lo richiede.
Rimanere neutrali, lontani dai problemi e dalle tematiche “calde” come se non si facesse parte dello stesso contesto sociale e politico, è una strategia che non premia (e forse non ha mai premiato), perché non consente al pubblico di riconoscere una scelta valoriale e identitaria nella scelta di un brand.
Forse fare pubblicità oggi significa dunque schierarsi, parlare piuttosto che tacere per la paura di scontentare qualcuno, dire anche qualche “chissenefrega” in più, con l’obiettivo di costruire una reputazione solida e un legame relazionale forte con il proprio pubblico; tenendo sempre bene a mente che tutto questo non ha niente, ma proprio niente, a che fare con il “purchè se ne parli”.