
In questi mesi estivi passati sotto l’ombrellone può capitare di rilassarsi e iniziare a pensare all’eredità che la nostra generazione, quella dei famosissimi Millennials, lascerà alle successive. Se il Colosseo, i quadri del Botticelli e l’opera di Gioacchino Rossini vengono ancora studiati in tutto il mondo, cosa lasceremo noi agli uomini e alle donne del 3000? Come potranno capire quei trenta secondi di follia in cui tutti – e ci tengo a sottolineare tutti, perché la lista dei personaggi che hanno partecipato è incredibile – ballano come dei pazzi? Tuttavia, se andiamo oltre la prima impressione, l’Harlem Shake è stato un fenomeno unico, nato in internet da internet e per internet, con delle conseguenze enormi per il mondo della musica.
Tutto è cominciato nel 2012 con Harlem Shake, un brano musicale prodotto da Baauer per l’etichetta Mad Decent, a cui, a parte poche eccezioni, nessuno aveva fatto particolarmente attenzione.
La canzone infatti ha iniziato a diventare “virale” solo un anno dopo, nel febbraio 2013, quando George Miller, Youtuber conosciuto come Filthy Frank, si è ripreso con un gruppo di amici in tute di lattice mentre ballava a caso con la canzone in sottofondo. Vedere per credere.
Nell’arco di un paio di settimane, Youtube e in generale qualsiasi altro social si è riempito di video che rendevano omaggio all’originale e, pur senza conoscere davvero Harlem Shake, hanno fatto debuttare il brano come il singolo più ascoltato nelle classifiche 2013 di molti paesi.
La genesi di questo fenomeno non è quindi legata tanto alla qualità in sé della canzone, quanto piuttosto al nostro desiderio di prendere parte a ciò che è circondato da una certa aurea di hype. Il “ballo” harlem shake ha reso famosa Harlem Shake e non viceversa, ribaltando così una delle logiche che ha sempre regolato il mondo della musica. Per la prima volta non è stato l’artista a creare un contenuto che gli ascoltatori hanno reso virale ma sono stati gli ascoltatori stessi a creare un contenuto che ha reso virale il prodotto dell’artista, anche se tra i due inizialmente non c’era alcun legame.
Quello dell’harlem shake è stato però un caso quasi unico (Shooting Star dei Bag Raiders ha subito un processo simile ma in modo minore e diverso) e gli altri produttori non possono sperare che avvenga lo stesso con la loro musica. Se si vuole ottenere lo stesso successo è necessario quindi che sia l’artista stesso a fornire dei contenuti altamente memeabili, in modo da incoraggiare gli ascoltatori a diffonderli attraverso la creazione di meme. In questa intuizione sta appunto la grandezza dell’harlem shake: ha dimostrato che per provare a dare viralità (seppur effimera) a un contenuto è necessario, almeno come primo passo, darlo in pasto a internet. Rendere il proprio prodotto memeabile è quindi un’ottima strategia di vendita, a prescindere da ciò che si sta cercando di vendere.
Il caso più eclatante è probabilmente quello di Gangnam Style, ve lo ricordate?
Nonostante l’enorme barriera linguistica e culturale, la canzone ha comunque raggiunto i tre miliardi di visualizzazioni su YouTube, diventando così uno dei video più visti di sempre. Questa visibilità non è però assolutamente legata alla qualità del pezzo in sé, ma, anzi, è dovuta alla sua memeabilità. La danza da cavallerizzo, lo stile esagerato di Psy e la completa assenza di un qualche senso complessivo sono elementi messi di proposito all’interno di un video volutamente ridicolo e stupido, pensato non tanto per piacere quanto più per diventare immediatamente riproducibile da chiunque.
Infatti, sebbene Gangnam Style fosse esplosa prima del successo dell’harlem shake, Psy e il suo team avevano già imparato la lezione. Psy ha infatti rovesciato, incredibilmente in anticipo, il sistema che da lì a poco l’harlem shake avrebbe sconvolto: il potere di creare contenuti doveva necessariamente essere di nuovo in mano all’artista ma, questa volta, era compito suo fornire al pubblico gli elementi per rendere il tutto riproducibile e replicabile da chiunque. Si è quindi tornati alla logica che regolava il mondo della musica prima dell’harlem shake, ma con la consapevolezza del contributo fondamentale dato da internet e dai meme nella promozione di un prodotto.
Tuttavia, Psy non aveva compreso ancora una delle regole fondamentali di internet: non si può vivere di rendita.
I meme possono veicolare la viralità, ma non garantiscono la longevità del contenuto, per cui è invece necessario fornire continuamente nuovi materiali da far “fagocitare” al web.
La ripetizione, non intesa alla maniera dei meme ma come “incapacità di creare nuovi contenuti”, porta all’oblio, ovvero una delle cose peggiori che ti possano accadere su internet.
Psy non ha infatti trovato un’alternativa o un’evoluzione al suo personaggio da simpatica canaglia e alla fine, pur avendo sfruttato il suo successo per raggiungere il miliardo di visualizzazioni con un altro video (Gentleman), è semplicemente sparito, almeno nel mondo Occidentale in cui aveva avuto così tanto successo.
Drake è riuscito esattamente dove Psy aveva fallito. Guardando la sua carriera è infatti facile notare come il personaggio che Drake interpreta si è evoluto seguendo la sua stessa crescita personale. Drake è diventato uomo davanti ai suoi fan, cambiando nel suo aspetto fisico, nella sua personalità e nell’approccio al suo mestiere. È passato dall’essere “the nice guy” che ci rimane male per gli amori non corrisposti a “the tough guy” che flexa tutti i suoi soldi e il suo stile di vita. Quest’evoluzione gli ha permesso di creare continuamente contenuti nuovi in base alla fase di vita che stava attraversando, riuscendo così a non risultare mai banale o noioso, restando anche sempre al centro dell’attenzione.
Allo stesso tempo, però, Drake è anche il rapper più memeato che c’è. Hotline Bling e God’s Plan ne sono due esempi recenti e lampanti. Ecco qualche esempio:
Entrambi i video sono stati girati seguendo la stessa logica di Gangnam Style, ma cuciti addosso al personaggio di Drake, e lo stesso è stato fatto per le lyrics, scritte pensando soprattutto al pubblico che abita i social (in particolare a Instagram e ai copy delle foto) come target finale.
Sono questi due aspetti, più della qualità innegabile delle sue canzoni, ad averlo reso l’artista che è.
In conclusione, l’harlem shake mostra chiaramente come la musica oggi non sia più intesa come un fine – ovvero la creazione di un prodotto eterno e unico – ma come un mezzo per il successo, legato sempre di più alla viralità che internet potenzialmente permette.
Francesco Benvegnù