
L’artista Fortunato Depero sosteneva che quella pubblicitaria è sia “un’arte fatalmente pagata”, sia “un’arte fatalmente vissuta. Secondo lo scrittore canadese Stephen Leacock si tratta della “scienza di fermare l’intelligenza umana per il tempo necessario a spillarle quattrini”. Nell’eterno dibattito sulla natura umanistica della comunicazione di massa a scopi commerciali spiccano due domande: la pubblicità è arte? Ed è davvero in contrasto con la letteratura?
Una villa settecentesca viene addobbata a festa: un via vai di cuochi, musicisti, sarti e bartender si preparano entusiasti al suo inizio. Vistose parrucche accompagnate a minigonne, sontuosi candelabri e amplificatori. L’atmosfera è una fusione in chiave estetica tra retrò e contemporaneo, una suggestione costruita sui dettagli. Un uomo percorre la scena, attraversa sorridente ogni sala. Esce dalla porta, sorseggia da un bicchiere. Sta ancora sorridendo mentre la sua voce suggerisce: “In fondo non è forse vero che l’attesa del piacere è essa stessa il piacere?”.
Così, dal dialogo di una commedia del filosofo illuminista Gotthold Ephraim Lessing, quell’affermazione è giunta allo spot del Campari Red Passion.
“Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Sono quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. […] Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. […] Credete di possedere il libero arbitrio, ma un giorno o l’altro riconoscerete il mio prodotto sugli scaffali di un supermercato e lo acquisterete, così, tanto per assaggiarlo, credetemi, conosco il mio mestiere.”
Questa, tratta dal romanzo Lire 26.900 di Frédéric Beigbeder, è solo una delle tante rappresentazioni su carta del mondo della pubblicità, da sempre bersaglio gettonato nei mondi paralleli delle distopie letterarie contemporanee.
Non stupisce affatto quanto il mito della dicotomia tra letteratura e pubblicità possa essere diffuso, se alla tv Dante è intento a scrivere la Divina Commedia sui rotoli Foxy Mega e “menzogna legalizzata” è la definizione data da H. G. Wells a una delle più diffuse forme di comunicazione del nostro tempo.
Eppure, oltre le contaminazioni reciproche, la pubblicità è molto più vicina alla letteratura di quanto si possa immaginare.
Quando la pubblicità è arte
A pensarci bene, che la pubblicità possa talvolta diventare una vera e propria forma d’arte è realtà oramai constatata.
Attraverso le arti figurative ne fu espressione l’Art Nouveau, che a cavallo tra Ottocento e Novecento vedeva leggiadre e ammalianti donne avvolte da motivi floreali e ornamentali sui manifesti pubblicitari ad opera di Alfons Mucha; più di recente ne sono dimostrazione le talvolta controverse campagne curate da Oliviero Toscani per brand quali Benetton e Fiorucci.
Per non parlare delle influenze cinematografiche, concretizzatesi in veri e propri spot d’autore: ben lontani dallo scopo di presentare le caratteristiche funzionali di un prodotto, sono a tutti gli effetti suggestivi racconti. David Lynch, Woody Allen, Martin Scorsese e Wes Anderson sono solo alcuni dei registi di fama mondiale che hanno trasformato spot pubblicitari in capolavori di regia.
Potrebbe sembrare assurdo che le inserzioni pubblicitarie su YouTube destino disappunto e che proprio l’ultimo spot Kenzo diretto da Spike Jonze abbia abbondantemente superato i 4 milioni di visualizzazioni, eppure in qualche modo non lo è.
Forse la spiegazione sta proprio nel fatto che non si tratta “solo” di pubblicità.
Come la pubblicità è spesso diventata arte, anche l’arte si è talvolta scoperta insospettabilmente pubblicitaria: nessun fine commerciale dietro la pop art di Andy Warhol, eppure l’impennata nelle vendite dei prodotti Campbell ne fu diretta conseguenza.
Ben oltre l’art pour l’art e la pubblicità fine a se stessa esistono dunque “arte per la pubblicità” e “pubblicità per l’arte”, dove i confini tra due realtà apparentemente in conflitto si fondono e confondono a beneficio di due mondi che non possono – e non devono – contrapporsi.
E se la pubblicità fosse anche letteratura?
La pacifica convivenza e lo scambio continuo sono oramai fatto provato e accettato nel caso delle arti figurative. Eppure, tra le forme d’arte, la letteratura sembra elevarsi e mantenersi a debita distanza da ogni associazione al mondo della comunicazione a fini commerciali.
Da un lato testi letterari scritti per durare nel tempo; dall’altro il ciclo di vita molto breve della pubblicità.
Da un lato un’attività deliberata di natura strettamente intima, che richiede spesso riflessione e isolamento; dall’altro la fruizione imposta o fortuita di messaggi parte di quel sottofondo uniforme e composito che è il flusso mediatico.
Basta allontanarsi di poco dal giudizio di valore spesso intrinseco nel termine “letteratura” per comprendere come invece la pubblicità possa farne parte a pieno titolo. A detta del critico letterario Francesco Orlando rientra nella letteratura ogni linguaggio compreso tra “un eccesso e un difetto di retorica”: al di sotto di esasperazioni figurali simili ai deliri che mettono in crisi la comprensione, al di sopra di testi del tutto privi di appeal estetico come quelli tecnici o giuridici.
Ecco quindi, nel mezzo, anche la pubblicità, in cui il codice verbale resta quello fondamentale e la manipolazione delle parole l’esercizio creativo di un’amabile banda di poeti, i copywriter, cui presero parte autori quali Gabriele d’Annunzio e Gabriel Garcia Marquez ma anche – più recentemente – Paulo Coelho e Alessandro Baricco.
La persuasione diventa arte attraverso un linguaggio pervasivo ricco di figure retoriche, tra scarpe che respirano, yogurt che invitano a fare l’amore con il sapore, pennelli grandi e grandi pennelli.
Gli slogan sono l’habitat dell’iperbole ironica, ma anche manifestazioni continue di quell’abilità che è la polisemìa, ovvero la capacità di dire moltissimo in poco spazio, di suscitare interpretazioni e riflessioni che vadano ben oltre il testo stesso: basti pensare alla carica positiva di un semplice “Just do it”.
L’elemento fondamentale è l’incisività del linguaggio, che non deve però mai cessare di essere familiare e immediato, affinché sia compreso e ricordato. Lontani dalla complessità dell’avanguardia e vicini alla riconoscibilità di ciò che è popolare, gli slogan restano così impressi nella mente e nel tempo. In fondo sappiamo tutti rispondere alla domanda “Cosa vuoi di più dalla vita?”.
La pubblicità è una prospettiva, una percezione del mondo; ha in comune con i grandi romanzi quell’elemento vitale per l’uomo che è l’immaginazione – e perché no – la finzione. Al consumatore non è più chiesto di credere a ciò che gli viene detto, quanto piuttosto di fantasticare senza freni, si tratti di Antonio Banderas che sforna biscotti in compagnia di una gallina o di una capra in motocicletta a Possibilandia. La suggestione, l’assurdo, l’abbandono della routine in favore di dimensioni irrealistiche e lontane: sia pure a fini commerciali, la pubblicità risponde al bisogno elementare dell’uomo di sognare.
Eccola, la parola chiave è ancora una volta storytelling, l’indistruttibile filo di congiunzione tra il mondo letterario e quello pubblicitario, che hanno e avranno sempre storie da raccontare e messaggi da trasmettere. Entrambi attingono dalla realtà, e ambedue la esasperano o la modificano risaltandone gli aspetti drammatici, ironici o sentimentali.
Nel passaggio dalla quantità alla qualità, oggi la gara a chi urla più forte e più insistentemente non si disputa più: a vincere nella pubblicità è la narrazione, e la narrazione non è altro che letteratura.