
Nel 2020 il mondo della moda ha registrato perdite senza precedenti: si parla di un calo del 23% del fatturato dovuto alla diminuzione delle esportazioni e delle vendite al dettaglio. Il periodo che si sta attraversando porta con sé anche un calo dell’interesse verso lo shopping: molte famiglie si sono trovate in condizioni economiche difficili e il fatto di poter lavorare comodamente da casa non ha incentivato la scelta di effettuare nuovi acquisti.
Secondo le stime di Confindustria Moda, il recupero del comparto è previsto per il terzo trimestre di quest’anno, purché la campagna vaccinale prosegua efficacemente. Nei periodi di lockdown, lo shopping si è spostato esclusivamente sull’online: la vendita attraverso Internet è stata infatti per molti marchi l’unica fonte di reddito nei mesi di chiusura, e le aziende hanno dovuto puntare su e-commerce e strategie di comunicazione capaci di rendere più visibili i prodotti nel web per contrastare le perdite offline. L’impatto della pandemia ha cambiato le abitudini di molti consumatori, che ora acquistano online in quanto è sempre più facile, veloce e sicuro.
La moda in Italia
I dati di Confindustria Moda parlano chiaro: il settore della moda è stato uno di quelli più colpiti, il fatturato è calato del 26% a circa 75 miliardi, dopo aver sfiorato i cento nel 2019.
La filiera della moda dà lavoro a 550.000 addetti diretti e altrettanti nelle attività di commercio e servizi,per un totale di 1 milione e centomila persone. Poi c’è il saldo commerciale: la moda è il secondo settore per contributo delle esportazioni: nel 2019 il valore assoluto è stato di circa 70 miliardi.
I brand della moda sono a capo di complesse e lunghe filiere composte da circa 60.000 imprese, la maggior parte delle quali con meno di 15 addetti. Le medie, piccole e piccolissime aziende alle quali si appoggiano i grandi brand e gruppi formano un ecosistema interno ad un ambiente più esteso che va tutelato tanto quanto quello dell’industria della moda. Decine di migliaia di artigiani, microimprese e Pmi detengono infatti il primato europeo della produzione del settore, con il 41% del totale.
Secondo l’Osservatorio Export Digitale della School of Management del Politecnico di Milano nel 2020 l’export digitale italiano di beni di consumo ha raggiunto un valore di 13,5 miliardi di euro. Il Fashion è ancora il settore più importante, con un valore di 7,1 miliardi di euro, pari al 53% delle esportazioni digitali di beni di consumo e al 16,5% di quelle online di settore.
La situazione in ambito retail
Il biennio 2020-2021 sarà forse ricordato come l’anno zero del retail: gli effetti della pandemia hanno accelerato notevolmente una grande trasformazione in realtà già in atto da alcuni anni, ovvero la revisione dei modelli di distribuzione dei fashion brand. Nell’ultimo periodo si sta assistendo infatti ad una drastica riduzione dei negozi fisici per puntare sempre di più all’implementazione e al potenziamento del canale online. I continui cambiamenti e le limitazioni alla circolazione a cui stiamo assistendo nell’ultimo periodo stanno moltiplicando la riduzione della presenza fisica da parte dei brand. Modaes, rivista di settore per la moda in Spagna, ha fatto una stima delle chiusure: considerando solo tre grandi gruppi come Inditex, H&M e Gap, la riduzione dei punti vendita potrebbe coinvolgere fino ad un massimo di 1.400 negozi. Il calcolo del numero di chiusure potrebbe essere assai superiore nel caso in cui la situazione non dovesse migliorare.
Inditex
Inditex, la multinazionale del “Fast Fashion” di Amancio Ortega che gestisce oggi circa 7.000 store (357 in Italia) in 96 Paesi, è stata la prima a inserire grandi numeri a quattro cifre nei suoi piani di ristrutturazione dichiarando, lo scorso giugno la dismissione di un massimo di 1.200 negozi nel mondo. I mercati più colpiti tra il 2020 e il 2021 sono stati soprattutto Asia ed Europa, con l’obiettivo di realizzare una rete integrata “più agile e sostenibile”. All’inizio di quest’anno il piano è entrato a regime con la notizia sulla chiusura di quasi 100 store fisici di Bershka, Pull&Bear e Stradivarius in Cina, dove il gruppo è pronto a scommettere solo sulla loro presenza e-commerce.
H&M
A ottobre, H&M ha sottolineato come un quarto dei suoi 5.000 store fisici abbia contratti di affitto in scadenza o da rinegoziare (coinvolgimento di 1.250 store). Non è ancora stato ufficializzato il piano di ristrutturazione, ma la revisione dei contratti si aggiunge alla dichiarazione sulla chiusura di 350 negozi, contro 100 opening, portando così un decremento netto di circa 250 negozi. La decisione di accelerare questo processo di cambiamento è arrivata durante il lockdown di quest’ultimo periodo. Il forte aumento delle vendite online ha notevolmente influenzato il gruppo svedese ad aumentare il proprio impegno per un’integrazione sempre più omnichannel investendo maggiormente nel canale digital.
GAP
Anche Gap non si è tirata indietro, dichiarando di voler abbassare la saracinesca a 350 negozi Gap e Banana Republic in Nord America fino al 2023. Non solo: in Europa l’azienda sta studiando il trasferimento di almeno una parte dei 120 negozi con cui opera in franchising o altri formati.
La situazione in America
A questi si aggiunge il caso degli Usa, dove il fenomeno della riorganizzazione del retail è già in fase avanzata. Come ricorda Modaes, negli Usa, Coresight ha stimato che il 25% dei 1.200 centri commerciali negli Stati Uniti era a rischio di fallimento lo scorso luglio a causa di aggiustamenti da parte di grandi gruppi e insolvenze durante il periodo di chiusura. Nel caso del Nord America, nel 2017 si è iniziato a parlare di Retail Apocalypse, espressione che descrive la crisi del commercio al dettaglio nel Paese causata da:
- L’emergere di player online come Amazon;
- I cambiamenti nelle abitudini di consumo a seguito dello shopping online prima e dopo la pandemia;
- Le scadenze dei grandi debiti del settore retail e dei promotori dei centri commerciali.
Lo scorso anno Macy’s ha dichiarato di voler ridurre ulteriormente il suo perimetro retail studiando nuovi modelli di negozi per sopravvivere alla concorrenza dell’e-commerce. L’insegna simbolo dello shopping americano ha infatti annunciato la chiusura di 125 punti vendita nei prossimi tre anni. Di questi, 29 verranno dismessi già quest’anno.
Prospettive future
Il settore della moda sarà in grado di ripartire? Sì, ma questo dipende dall’evoluzione della domanda. Quando ci si potrà incontrare, si potrà uscire e tornare a passeggiare liberamente per le vie del centro le persone acquisteranno nuovi capi di abbigliamento, seguendo le ultime tendenze del momento.
Il retail deve seguire l’evoluzione del mercato. La situazione attuale è anomala, ma la pandemia e player come Amazon stanno facendo capire che c’è bisogno di una rivoluzione nel modo di operare. Il retail che abbiamo studiato nei libri è destinato a non funzionare da solo, l’omnichannel è un punto a cui tendere ma non si può improvvisare. Servono capitali, investimenti e cambiamenti delle logiche e delle strutture che supportano il business.