
Nel 2018 Giuseppe Stigliano ha pubblicato insieme a Philip Kotler il libro Retail 4.0, dove sono state definite le 10 regole o meglio, linee guida, per il retail del futuro. La proiezione di queste linee guida era pensata sugli anni a venire, ma la pandemia ha causato un’accelerazione globale del digitale che ha reso tutti i cambiamenti più veloci.
Il cambiamento è una costante. Permea le nostre vite e la nostra realtà, in tutti i campi.
Cambia il modo in cui lavoriamo, cambia il modo in cui ci relazioniamo agli altri, cambia il modo in cui acquistiamo, cambia il modo in cui conosciamo. E la nostra più intelligente forma di sopravvivenza è il continuo adattamento.
Parlando di retail, come sta cambiando l’esperienza di acquisto degli utenti? In che modo si relazionano con i brand e che ruolo avranno i punti vendita nel futuro? (Spoiler: potremmo non chiamarli più “punti vendita”).
Abbiamo fatto una chiacchierata con Giuseppe Stigliano, autore insieme a Philip Kotler di Retail 4.0, dove abbiamo cercato di capire quale sarà il futuro, tra omnicanalità, alfabetizzazione digitale e vorace curiosità.
Ciao Giuseppe, benvenuto su This MARKETERs Life e grazie per aver accettato il nostro invito! Come prima cosa volevo chiederti di raccontarci, per chi non ti conosce, chi sei, che cosa fai.
Ciao Emanuele, mi presento brevemente: sono Giuseppe Stigliano e sono amministratore delegato di Wunderman Thompson, azienda di marketing e comunicazione facente parte della più ampia holding WPP, una società che in Italia conta circa 2500 persone e una quarantina di aziende diverse. Wunderman Thompson ha circa 200 uffici nel mondo e io mi occupo dei due italiani, Milano e Roma.
Parallelamente, dopo aver fatto un Ph.D in Economia & Marketing una quindicina di anni fa, sono entrato nel mondo accademico e attualmente tengo delle docenze stabili in IULM e Cattolica e delle lecture in diverse università tra cui HEC Paris, London Business School e Singapore Management University.
Inoltre, ho avuto l’opportunità di diventare un autore e scrivere due libri insieme a Philip Kotler. Il primo libro, Retail 4.0 è stato tradotto in molte lingue e quindi mi ha dato un trampolino di lancio internazionale come keynote speaker. Partecipo su base settimanale a talk ed eventi con aziende e altri professionisti in cui parlo di come sta evolvendo il commercio e la trasformazione digitale.
Qual è stata per te una tappa fondamentale del tuo percorso professionale che ti ha portato ad essere dove sei oggi?
Di snodi nel mio percorso ce ne sono stati molti e ho sempre cercato di seminare il più possibile per creare delle opportunità. Sicuramente, per individuare una tappa fondamentale, l’incontro con Philip Kotler è stata l’opportunità che mi ha dato più valore e la possibilità di aver imparato più cose – sia per averlo conosciuto, sia per aver lavorato insieme a lui su due libri ed essere quindi associato a lui.
Pensa che mi ha addirittura scritto una recommendation letter su Linkedin! È inevitabile che mi abbia cambiato la vita perché mi ha aperto delle porte a livello internazionale.
Facendo qualche passo indietro, il primo snodo cruciale della mia vita è stato quando in quinta superiore ho scelto, senza saperne granché, il percorso in marketing alla IULM, che si è rivelato essere la cosa per cui sono più portato nella vita, che mi dà più soddisfazione e che mi fa sentire realizzato.
Entro subito con una domanda a gamba tesissima. Il mondo in questo ultimo anno è cambiato ad una velocità supersonica, facendo un balzo in avanti di 10 anni nel giro di pochi mesi.Che cosa aggiungeresti a quello che hai scritto in Retail 4.0? Quali sono i punti che secondo te oggi si sono evoluti in maniera tale da cambiare completamente rispetto a quando hai scritto il libro?
Allora, il libro era concepito per essere un playbook, una bussola di orientamento. In inglese, le regole si chiamano “guiding principles”. L’idea è che siano dei principi guida che orientino le decisioni dei manager. In quanto principi guida, scritti in un libro che per definizione è statico, noi li abbiamo concepiti con una modalità “forward looking”, cercando quindi di immaginarli come dei trend di evoluzione.
Quello che è successo, e che era sui binari dei nostri principi, è stato un balzo in avanti velocissimo, come se fosse stato montato un nuovo motore sul treno e fosse stato spinto all’inverosimile.
Essendo i trend figli di una crescente alfabetizzazione digitale della popolazione mondiale nei paesi industrializzati, quando viene accelerata la digitalizzazione, viene accelerata l’evoluzione.
Ad esempio, la personalizzazione è sempre stata qualcosa che gli individui apprezzano e amano perché li fa riconoscere, ma la tecnologia lo può fare in scala. Così come Netflix personalizza l’interfaccia grafica e tu e io vediamo cose diverse, se acceleriamo la digitalizzazione, il numero di persone che si aspettano la personalizzazione si moltiplica in pochi mesi.
Quindi non è che vogliono altro, vogliono quello che avevamo immaginato essere il binario evolutivo. Solo che anziché essere successo in cinque anni, è successo in tre mesi.
Per farti un esempio, nei tre mesi centrali della pandemia (da marzo a giugno 2020) hanno comprato online per la prima volta 2 milioni e 100mila persone.In un anno normale come il 2019, avevano comprato online per la prima volta 700mila persone. Vuol dire che è stato triplicato in tre mesi quello che prima si faceva in un anno.
Ci sono quindi molte più persone online, molte più persone che si aspettano personalizzazione, seamless integration, che gli store fisici diano loro un vero motivo per andare – considerando le regole stringenti e i rischi della pandemia (be a destination), che propongano loro una tecnologia facile da utilizzare, quindi be invisible (molti di quelli che hanno acquistato per la prima volta sono over 70s). Quello che è successo è che tutte le regole sono state accelerate.
Dall’estero mi hanno scritto chiedendomi se veramente io avessi scritto il libro nel 2018, perché sembrava scritto durante la pandemia! Ovviamente non ci sono riferimenti alla pandemia, ma quando abbiamo pensato ai binari evolutivi evidentemente li abbiamo pensati corretti e coerenti alla realtà.
Non aggiungerei quindi regole, perché c’è un’accelerazione di quello che era già in corso; probabilmente, però, metterei più enfasi su alcune cose, come ad esempio il principio be human, dove parliamo delle 3S: servizio, socialità e sostenibilità.
Con servizio facciamo riferimento allo human centered design, per socialità intendiamo i punti vendita che diventano riferimento per le comunità di quartiere (Apple che fa corsi di fotografia nei negozi e così via) e con sostenibilità l’attenzione verso il nostro futuro.
Probabilmente sbilancerei i pesi: lo human centered design è ancora cruciale, la socialità è cambiata, perché non possiamo più fare assembramenti quindi non si possono invitare le persone nei propri negozi fuori orario. Invece il tema della sostenibilità acquisisce importanza perché si chiede alle aziende di prendere una posizione dove i governi non hanno forza per prenderle.
Anche nel nuovo libro che ho scritto insieme a Kotler e Riccardo Pozzoli abbiamo inserito una regola che è “Be Purposeful”, perché il tema del purpose oggi è diventato veramente cruciale e importante.
Massimo Temporelli su Wired (n. 93) afferma che grazie alla manifattura digitale, alle tecnologie di stampa e produzione 3D sarà possibile creare i propri prodotti in un “centro di manifattura vicino al consumatore”. Il punto vendita in quest’ottica diventa simile ad una bottega artigianale, come luogo di produzione, esperienza e scambio di idee.
Pensi che questa sia la direzione che il retail potrebbe prendere in un futuro non troppo lontano, in contrapposizione allo showrooming, oppure rimarrà una prerogativa dei brand in cui gli store hanno una forte componente esperienziale?
Personalmente sono restio a tagliare in maniera netta il futuro. Io credo che nel futuro il retail fisico assumerà connotazioni diverse, a seconda di una serie di fattori. Sono quasi certo che dovremo smettere di chiamarli punti vendita: chi l’ha detto che la vendita debba avvenire lì? Magari avviene lì, ma magari avviene altrove perché si fa esperienza in negozio e poi si acquista online.
Il termine punto vendita è fuorviante perché diamo per scontato che la vendita sia il termine di valutazione, e quindi continueremo a valutarli sulla base della redditività al metro quadro. Il che vuol dire che molti flagship non saranno sostenibili se guardati con queste metriche.
È un luogo fisico che dovrebbe includere KPI più ampi, che riguardano aspetti “più umani”. Ad esempio, dovremmo chiederci quanto stiamo risparmiando sul marketing perché abbiamo delle impression date da tutte le persone che passano davanti al negozio? Quanta consideration sta facendo avere un negozio nelle vie centrali dello shopping? Quante persone entrano? Quante persone fanno passaparola? Ci sono delle photo-opportunity da postare che i clienti possono condividere con la loro rete?
È sicuramente più complesso e astratto perché non ci sono tutte le metriche, ma è così che i punti fisici dovrebbero essere valutati.
Una bella categorizzazione è quella basata sui clienti: locator, explorer, dreamer:
- Il locator è colui che entra, vuole visualizzare il prodotto e uscire nel più breve tempo possibile;
- L’explorer è quello che vuole comprare un prodotto ma non sa bene quale e quindi si fa consigliare;
- Il dreamer è quello curioso, che non deve comprare il prodotto, ma entra nel luogo fisico e guarda.
Questa categorizzazione potrebbe aiutare a disegnare il punto vendita sulla base delle esigenze del Cliente che si vuole intercettare. Ci sono però metriche diverse – perché non si possono valutare tutti alla stessa maniera – esigenze diverse e assortimenti diversi.
Il rischio è che queste tre categorie (locator, dreamer ed explorer) convivano nella stessa persona e nello stesso punto vendita! Per farti capire, se vado al supermercato alle 7:30 di sera, dopo una giornata lavorativa sono sicuramente un locator, voglio fare più velocemente possibile. Ma durante il weekend, nello stesso supermercato magari passo del tempo nella corsia dei vini. E magari faccio anche il dreamer.
Quindi, per chi disegniamo quindi il punto vendita? Il category management come lo facciamo? A chi ci rivolgiamo come focus target? Queste complessità danno l’idea di come il punto vendita non possa più essere chiamato punto vendita.
Per tornare alla tua domanda, certamente in alcuni format – sicuramente non quelli per locator, ma probabilmente quelli per explorer e dreamer – è possibile che ci sia questa unione.
Per fare un esempio: se in un negozio di scarpe da running all’explorer stampi la suola dopo aver preso il calco del suo piede e aver studiato una suola personalizzata, stai facendo una produzione ad hoc, stai facendo co-design del prodotto insieme al cliente e stai personalizzando sulla base delle sue esigenze, facendolo diventare un prodotto unico. In questo caso potrebbe funzionare.
Il fashion retail, durante l’anno appena passato è giunto ad un (quasi) punto di rottura rispetto al passato: i flussi turistici che popolavano le vie del commercio delle capitali della moda europee sono venuti meno, sono aumentate le quote di fatturato legate all’e-commerce e sono cambiati anche i valori nella moda: come pensi che i punti vendita cambieranno in seguito a questi cambiamenti?
Una metafora per raccontare quello che sta succedendo è quella dello stretching: ogni volta che stimoliamo i nostri muscoli rompiamo delle fibre muscolari. Il trauma fa in modo che nei giorni successivi il muscolo si rimetta in sesto, non come era prima, ma aumentando piano piano il suo volume. La cultura funziona allo stesso modo, quando apprendiamo e conosciamo rompiamo delle convinzioni che si ricostruiscono più forti.
La pandemia, allo stesso modo, ci ha obbligato a fare un “allenamento forzato” in determinate direzioni. Ha allenato dei muscoli che prima allenavamo poco o meno di altri.
È chiaro che quando tutto sarà finito cercheremo di recuperare alcune vecchie abitudini e modi di fare, ma non torneremo mai a fare quello che facevamo prima, perché nel frattempo il muscolo è cresciuto ed è cambiato il nostro corpo.
Non è facile dire, però, dove ci andremo ad assestare. Molti cercheranno di tornare esattamente dove eravamo.
Confido che sapremo fare di necessità virtù una volta di più e avere maggior rispetto per le persone e per il pianeta. Queste istanze, complice internet, complice una maggiore consapevolezza e una maggiore attenzione da parte delle persone acuita dalla pandemia su quanto il mondo sia collegato, ci porteranno ad una necessaria ridefinizione degli equilibri.
Se il fast fashion non è sostenibile, va ripensato. Se ricevere un pacco in poche ore dopo averlo ordinato non è sostenibile, non va fatto e così via…
Mi auguro che questo stretching riporterà i nostri muscoli in una forma migliore e meglio equipaggiata per il mondo e mi auguro che riusciremo a ridisegnare il nostro business e il nostro futuro, soprattutto per quanto riguarda la moda. La lettera di Armani a WWD credo possa essere un buon punto di riferimento.
Facciamo una premessa: la distinzione tra online e offline non esiste più – per dirla con Luciano Floridi, la realtà è “on-life” – e la customer experience che i clienti si aspettano è senza soluzioni di continuità; la pandemia da questo punto di vista ha dato una grande spinta alle aziende per implementare delle soluzioni di customer engagement omnicanale.
Quanto, secondo te, i retailer che sono stati presi alla sprovvista da questo cambiamento pagheranno gli strascichi “tossici” e dannosi dell’implementazione di un’omnicanalità non “da manuale” e in maniera affrettata?
Io credo che idealmente non si dovrebbe partire in ritardo, idealmente i progetti dovrebbero essere implementati con i tempi corretti e così via. Ma credo anche che “necessity is the mother of invention”: ci sono dei momenti in cui bisogna essere resilienti, reinventarsi velocemente.
L’errore non è nell’essere partiti in ritardo e aver dovuto improvvisare. L’errore è continuare a improvvisare.
Se ci si rende conto di essere partiti in ritardo per un numero di ragioni, il punto è fermarsi e – avendo capito la direzione verso la quale il mondo sta andando e avendo fatto lo sforzo di adattamento – non continuare a mettere pezze e ad improvvisare solo per stare in piedi.
Cercare quindi di individuare le costanti che nei prossimi anni rimarranno e di renderle strutturali, così che quando il mondo riprenderà a muoversi ad una velocità normale avremo fatto tesoro della situazione attuale.
Questa è la differenza tra resilienza ed antifragilità: la resilienza è come la fenice, brucia e rinasce uguale dalle sue ceneri. Noi non dobbiamo rinascere uguali, altrimenti continueremo ad improvvisare. Dobbiamo essere antifragili, rinascere più forti.
Accettare l’idea di aver commesso degli errori, darci il merito di essere riusciti a rimanere a galla arrabattandoci, ma capire che dobbiamo fermarci, fare un punto e definire che cosa ci consente di dare solidità e costruire il nostro futuro.
Quindi, per tornare alla tua domanda: individuare quali sono i punti che consentono di strutturare una strategia omnicanale efficace e costruire su quelle basi un piano industriale per i prossimi cinque anni.
L’errore non è aver investito tardi o essersi adattati in corsa. L’errore sarebbe continuare ad arrabattarsi sperando che il mondo ritorni a come era prima. Ma non torneremo mai allo status quo.
Grazie mille Giuseppe per la tua disponibilità. Un’ultima cosa, un consiglio che daresti ai giovani di oggi: cosa ritieni fondamentale per distinguersi nel mondo del lavoro?
Io chiudo il libro dicendo “Be curious”, credo sia veramente il motore di qualsiasi cosa.
In un mondo che cambia alla velocità di un algoritmo, con un tasso di incertezza elevatissimo e una variabilità così forte e dove le soft skills più ricercate dal mercato sono the ability to deal with change, being comfortable with uncertainty, le aziende cercano persone che stiano bene nella confusione.
L’unica soluzione a questo è non fermarsi mai ed essere curiosi.
Che cosa ci portiamo a casa da questa chiacchierata con Giuseppe Stigliano?
- Seminare tanto per crearsi le proprie fortune: il motto di Frank Costello in “The Departed” è “No one gives it to you, you have to take it”. Ecco, il paragone è decisamente forzato e il personaggio interpretato da Jack Nicholson aveva una visione meno lecita, ma rimane l’insegnamento di fondo: le nostre fortune, le nostre opportunità sono il risultato di quello che abbiamo seminato, di quello che ci siamo creati, delle relazioni che abbiamo coltivato e di quanto ci siamo messi in gioco.
- Non andremo più nei punti vendita: esisteranno ancora ovviamente, ma non saranno più solo ed esclusivamente punti in cui si conclude una vendita; potranno essere punti esperienziali, punti di esplorazione del brand, luoghi dove essere trasportati ed immersi nell’universo valoriale dei brand. E quindi dovranno cambiare i KPI e le metriche di valutazione.
- Il retail è omnicanale: si parla già di omnicanalità da tempo, ma la situazione attuale ha contribuito ad esplodere la velocità con cui stava avvenendo la transizione. Le persone si aspettano coerenza tra tutti i touchpoint, continuità di offerta e soprattutto semplicità di utilizzo. La distinzione tra online e offline non esiste.
- Purpose, purpose e ancora purpose: per rimanere sul mercato è fondamentale avere una propria ragione di essere, una giustificazione del perché si fa quello che si fa, sempre più focalizzata sugli aspetti umani e ambientali del business. I brand devono quindi definire in maniera precisa la propria identità per poi comunicarla alle proprie persone ed avere la capacità di trasportarle all’interno del proprio mondo valoriale.
- Antifragilità: utilizzare le crisi e i problemi come catalizzatori di una rinascita più forte, superando i propri punti di debolezza. Accettare l’errore, ma trovare solidità e ricostruire il proprio futuro.
- Be curious: lettori di This MARKETERs Life, vi suona familiare?